Il paradosso italiano dei rimpatri: come gli irregolari restano in circolazione tra vuoti diplomatici, leggi inefficaci e criminalità

Secondo i dati del Viminale, il tasso di rimpatrio effettivo verso molti di questi Paesi è a una cifra: spesso inferiore al 10%. Questo significa che, per ogni dieci ordini di espulsione emessi, solo uno viene realmente eseguito.

In Italia gli stranieri sono il 9% della popolazione. Eppure, dietro le sbarre rappresentano il 32%. Significa che, statisticamente, uno straniero ha oltre tre volte le probabilità di finire in carcere rispetto a un italiano. È una sproporzione che pesa e che non nasce dal nulla: è il prodotto di un sistema che genera irregolarità, non sa governarla né punirla. E questo a prescindere dal colore politico di un governo.

Con quest’inchiesta voglio rispondere alla domanda più semplice, e al tempo stesso più elusa, degli ultimi anni: perché l’Italia non riesce a rimpatriare gli immigrati irregolari, nemmeno quando diventano protagonisti di episodi di violenza e di reati?

La prova è in un ufficio qualsiasi di una questura italiana, dove su una scrivania giace un ordine di espulsione ingiallito agli angoli. Porta il nome di un giovane gambiano fermato dodici volte in quattro anni. Furti minori, resistenze, una rissa e poi uno stupro. Ogni volta la stessa trafila: identificazione incerta, richiesta di documenti al consolato, silenzi che durano mesi. E alla fine, l’inevitabile formula che chiude il fascicolo: rimpatrio non eseguibile.

Il Gambia non lo riconosce come suo cittadino. L’Italia non può trattenerlo oltre. Il risultato è che resta qui, sospeso in una terra di mezzo giuridica dove tutto è possibile e nulla è definitivo. Il sistema che dovrebbe garantire ordine e sicurezza si inceppa nella burocrazia internazionale, e quello che resta è un paradosso.

Nella teoria, l’espulsione di un irregolare segue un percorso lineare: si identifica la persona, si emette il provvedimento, la si accompagna in un CPR e poi su un volo verso il Paese d’origine. Nella pratica, quel percorso si rompe già al primo passo.

Partiamo dall’inizio: senza passaporto, tutto si ferma. La maggior parte degli irregolari fermati non ha documenti validi. Per identificarli servono consolati che rispondano, confermino le generalità, emettano un lasciapassare. Ma molti Stati semplicemente non collaborano o lo fanno dopo mesi. Senza quel documento, l’Italia non può rimpatriare nessuno: la persona resta qui, formalmente espellibile ma materialmente irremovibile.

Poi c’è l’ordine di espulsione, questo viene emesso dal Questore o dal Giudice di pace. Si tratta di un provvedimento vincolante ma è spesso un atto senza conseguenze pratiche. Senza identificazione, non si può procedere all’accompagnamento alla frontiera. L’espulsione diventa quindi un foglio che resta nel fascicolo e non attraversa mai la porta di un aeroporto.

E infine il nodo dolente, quello che ha portato a discussioni acidissime nel corso dell’ultimo anno: i CPR, i Centri di Permanenza per i Rimpatri. Servirebbero a trattenere l’irregolare fino al volo. Ma i posti sono pochi, i tempi lunghi, e i giudici non autorizzano il trattenimento se non c’è una reale prospettiva di rimpatrio. Se lo Stato d’origine non collabora, nessuna prospettiva esiste. Di conseguenza, molti espulsi non entrano mai in un CPR, o ne escono prima che il rimpatrio diventi possibile.

Poi c’è il tema del viaggio di ritorno: senza un documento riconosciuto dal Paese di destinazione, il volo non può decollare. E anche quando tutto è pronto, un solo diniego del consolato può fermare l’intera operazione.

La somma di questi inceppi crea un dato strutturale: la maggior parte delle espulsioni firmate in Italia non viene mai eseguita. È la distanza tra la legge e la realtà ad alimentare la spirale dell’irregolarità.

È il punto cieco della politica migratoria europea, ed è quello in cui l’Italia cade con più frequenza.

I Paesi che presentano le maggiori difficoltà sono noti agli addetti ai lavori: Gambia, Guinea, Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Bangladesh, Pakistan. Nella maggior parte dei rapporti ufficiali, Corte dei Conti, Ministero dell’Interno, Frontex Returns Report, questi Stati compaiono regolarmente come “low cooperation countries”.

E perché non collaborano?

I costi. Rimpatriare un cittadino significa prendersene carico: accoglierlo, identificarlo, seguirne le pratiche. È un onere che molti Paesi preferiscono evitare, soprattutto quando possono scaricarlo sull’Europa.

L’assenza di incentivi. Perché dovrebbero farlo? Queste persone hanno lasciato il Paese da anni, non rappresentano alcun vantaggio politico e, spesso, nemmeno sociale. Non portano consenso, non portano stabilità. E nessun governo muove un dito per qualcosa che non gli conviene.

Le rimesse. Qui sta il vero nodo. I soldi che arrivano dall’Europa tengono in piedi intere economie familiari. Bloccare un rimpatrio significa mantenere viva una fonte di valuta costante. Ogni irregolare che resta in Europa è, per molti Paesi, un benefattore involontario. Un bancomat umano, come qualcuno lo ha definito senza troppi giri di parole.

Alla fine, tutto converge in una verità che nessuno dice apertamente: non collaborano perché non ne hanno alcun interesse.

Il risultato però è sempre lo stesso: senza il lasciapassare rilasciato dal Paese d’origine, l’Italia non può rimpatriare nessuno. E la sovranità nazionale muore nel limbo delle relazioni internazionali.

Secondo i dati del Viminale, il tasso di rimpatrio effettivo verso molti di questi Paesi è a una cifra: spesso inferiore al 10%. Questo significa che, per ogni dieci ordini di espulsione emessi, solo uno viene realmente eseguito.

Il confronto europeo è impietoso. In altri Paesi la macchina dei rimpatri funziona meglio perché la diplomazia è più assertiva, gli strumenti più solidi e lo Stato esercita il proprio peso con continuità. La Germania, ad esempio, ha siglato nel tempo numerosi accordi bilaterali non solo sulla cooperazione, ma sulla riammissione formale dei cittadini irregolari. Berlino considera i rimpatri un dossier di politica estera e li tratta come tali: voli charter regolari, procedure snelle, pressioni mirate sui Paesi che non rilasciano i documenti.

La Francia adotta un modello diverso ma altrettanto efficace: lega i rimpatri agli strumenti economici. Prestiti, fondi allo sviluppo e programmi di cooperazione sono spesso condizionati, formalmente o meno, alla disponibilità dei Paesi d’origine a riammettere i propri cittadini. È una linea dura, molto criticata dalle ONG, ma riconosciuta come uno dei motivi della maggiore efficienza francese.

La Spagna, invece, ha costruito negli anni una rete stabile con Marocco, Mauritania e Algeria. Accordi operativi, missioni congiunte e una diplomazia continua permettono rimpatri rapidi verso il Maghreb, spesso nell’arco di 48–72 ore. La relazione stretta con Rabat è uno dei pilastri del modello spagnolo.

L’Italia, al contrario, resta più fragile. Gli accordi effettivi sono pochi, spesso legati ai cicli politici interni, e le relazioni con molti Stati chiave sono discontinue. I rimpatri non vengono trattati come una priorità diplomatica strutturata. E i numeri lo confermano: il tasso di rimpatrio effettivo è tra i più bassi dell’Unione europea. Anche quando l’Italia chiede, ottiene risposta solo quando gli interlocutori scelgono di darla. È in questa asimmetria che la macchina si blocca.

Ci resta una constatazione semplice: Roma non decide nulla. Non decide chi entra, non decide chi resta, e nemmeno decide chi deve andare via.

In fondo, tutto si riduce alla banalissima radice del male: se uno Stato non ha alcun potere effettivo su chi circola sul proprio suolo, il diritto stesso perde di significanza assieme alle sue strette ma vane regole. Tutto resta parola o piuttosto propaganda politica ora comoda a qualcuno di un’altra barricata. 

V.C.