Ottant’anni dopo Norimberga: la giustizia dei vincitori e l’illusione di un diritto penale universale

Dal sogno di una giustizia internazionale nata sulle macerie del nazismo alla realtà selettiva della Corte dell’Aja: ottant’anni dopo, Norimberga resta un mito incompiuto e una lezione dimenticata.

Norimberga: la giustizia che nacque tra le rovine

Ottant’anni fa, nella città simbolo del fanatismo hitleriano, prendeva forma un esperimento senza precedenti: il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, istituito con la Carta di Londra dell’8 agosto 1945. Per la prima volta nella storia, individui – non Stati – venivano giudicati per crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. I giudici provenivano dalle quattro potenze vincitrici – Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito e Francia – e processarono ventidue tra i principali dirigenti del Terzo Reich. Il verdetto del 1° ottobre 1946 segnò la nascita del diritto penale internazionale moderno: dodici condanne a morte, sette pene detentive e tre assoluzioni. Nonostante la sua natura di “giustizia dei vincitori”, Norimberga fissò un principio rivoluzionario: nessun potere politico o militare può invocare l’immunità per sottrarsi alla responsabilità dei propri atti.

L’eredità dei princìpi di Norimberga

L’Assemblea generale dell’ONU, con la Risoluzione 95 (I) dell’11 dicembre 1946, fece propri i cosiddetti “Princìpi di Norimberga”, che divennero il fondamento di tutta la giurisprudenza internazionale successiva. Tra questi, il più innovativo: l’obbedienza agli ordini non esclude la colpa personale. Da tali principi nacquero gli Statuti dei tribunali ad hoc – come il Tribunale per l’ex Jugoslavia (ICTY) e quello per il Ruanda (ICTR) – e infine la Corte Penale Internazionale (CPI), istituita a Roma nel 1998 ed entrata in funzione nel 2002. La CPI rappresentò la promessa di una giustizia universale, fondata sul principio di complementarità: intervenire solo quando gli Stati non vogliono o non possono giudicare i propri crimini.

La giustizia selettiva del XXI secolo

Oggi, però, quella promessa appare incrinata. La Corte dell’Aja, pur nata per incarnare lo spirito di Norimberga, è accusata di parzialità geopolitica: oltre il 70% dei procedimenti ha riguardato leader e militari africani. Molti Paesi del continente – dal Sudafrica al Kenya – parlano apertamente di una “giustizia dei potenti contro i deboli”, sostenendo che la CPI agisca come strumento dell’Occidente. Parallelamente, le grandi potenze – Stati Uniti, Russia e Cina – rifiutano di riconoscere la giurisdizione della Corte, mantenendo intatta la propria impunità. Questo paradosso mina l’universalità che Norimberga aveva voluto affermare: la legge internazionale si applica solo ai vinti, mai ai vincitori.

Il ritorno della giustizia politica

La recente creazione del Tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina (giugno 2025) è emblematica di questa deriva. Istituito dal Consiglio d’Europa su richiesta di Volodymyr Zelensky, esso nasce per aggirare i limiti della CPI, che non può giudicare il crimine di aggressione senza la ratifica di Russia e Ucraina. In teoria, è un passo verso la responsabilità internazionale; in pratica, è una corte su misura, costruita per un solo caso e per un solo imputato. Così, il rischio è che la giustizia internazionale si riduca a strumento di pressione geopolitica, perdendo la sua legittimità universale e tornando alle logiche di Norimberga: giudicare i nemici, assolvere gli alleati.

Nuove sfide, nuovi crimini

Nel frattempo, il diritto penale internazionale affronta frontiere inedite. L’idea di introdurre il reato di ecocidio, per punire la devastazione ambientale su scala globale, riflette la crescente consapevolezza che la tutela dell’ambiente è una forma di giustizia universale. Allo stesso modo, la diffusione dell’intelligenza artificiale nei conflitti solleva interrogativi etici e giuridici: chi risponde di un crimine commesso da un algoritmo o da un drone autonomo? Anche i tribunali ibridi, come le Camere Straordinarie Africane o la Corte Speciale per la Sierra Leone, mostrano che la giustizia può essere più legittima quando è vicina ai contesti locali. Ma queste innovazioni convivono con una realtà immutata: senza volontà politica, non c’è giustizia internazionale efficace.

Norimberga come mito e monito

Ottant’anni dopo, Norimberga rimane una pietra miliare e un fallimento parziale. Fu un atto di civiltà giuridica, ma anche un simbolo di ambiguità storica: il tribunale che processò i crimini nazisti non giudicò mai Hiroshima, Dresda o Katyn. Eppure, da quel banco degli imputati emerse una verità destinata a durare: la guerra non assolve i crimini, li rivela. Oggi, mentre il mondo torna a confrontarsi con conflitti di aggressione e genocidi dimenticati, l’eredità di Norimberga invita a una riflessione amara: la giustizia internazionale non è un automatismo giuridico, ma una scelta politica. E fintanto che il diritto resterà subordinato al potere, la giustizia dei vincitori continuerà a chiamarsi “universale”.