Enrico Mattei, l’uomo che sfidò il mondo: misteri, potere e silenzi sul più grande caso irrisolto dalla storia d’Italia
Mattei non era un santo, ma era un innovatore politico. Credeva che lo Stato potesse competere con il capitale privato e che la ricchezza pubblica dovesse servire a liberare il Paese dalla sudditanza energetica
Un volo interrotto e un Paese attonito
È la sera del 27 ottobre 1962. Un Morane-Saulnier 760 Paris dell’ENI, pilotato dal collaudatore Irnerio Bertuzzi, decolla da Catania diretto a Milano-Linate. A bordo, insieme al pilota e al giornalista americano William McHale, siede Enrico Mattei, presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi.
Alle 18:57, mentre il velivolo si prepara all’atterraggio, scompare dai radar. Pochi minuti dopo, a Bascapè, nella campagna pavese, il cielo si illumina di un bagliore improvviso. L’aereo precipita, si disintegra al suolo e prende fuoco. Nessuno dei tre uomini a bordo sopravvive. L’indomani, i giornali titolano con parole che restano scolpite nella memoria collettiva: «Muore l’italiano più noto al mondo».
In quel rogo, più che un uomo, sembra scomparire una parte dell’anima industriale del Paese. L’Italia del boom economico perde la sua figura più carismatica, il manager che aveva osato sfidare il cartello internazionale del petrolio, le Sette Sorelle, imponendo una visione autonoma, mediterranea, italiana.
Un caso chiuso troppo in fretta
Nei giorni successivi alla tragedia, la magistratura militare apre un’inchiesta. La relazione dell’Aeronautica parla di incidente di volo, forse dovuto al maltempo o a un guasto tecnico. La spiegazione è frettolosa, approssimativa.
L’ENI, che Mattei aveva trasformato in un colosso pubblico capace di dialogare da pari con Stati sovrani, non vuole crederci. Neanche l’opinione pubblica si accontenta. Si parla di sabotaggio, di bomba a bordo, di mandanti internazionali. Ma tutto viene rapidamente archiviato. Nel 1966, il giudice istruttore della Procura di Pavia chiude formalmente il fascicolo: i fatti non sussistono. Dietro quella formula si nasconde un muro di omertà istituzionale. Nessuno spiega come un velivolo perfettamente efficiente possa disintegrarsi in volo, né perché alcuni testimoni sentano una forte esplosione prima dello schianto.
La pista dell’attentato — ventilata ma mai dimostrata — viene messa a tacere. Siamo negli anni in cui l’Italia si avvia alla stabilizzazione postbellica, e un caso Mattei aperto avrebbe significato mettere in discussione alleanze internazionali, interessi economici e strategie di Stato.
Un manager “eretico” nella geopolitica del petrolio
Per comprendere la portata di quell’evento, bisogna tornare indietro di quasi vent’anni.
Enrico Mattei, nato ad Acqualagna (Pesaro e Urbino) nel 1906, è un figlio dell’Italia che lavora, autodidatta e determinato. Dopo la guerra, come commissario liquidatore dell’AGIP, avrebbe dovuto chiudere un carrozzone del regime fascista. Invece lo rilancia. Intuisce che il Paese ha bisogno di energia, infrastrutture e autonomia industriale, non di svendere ciò che resta alle multinazionali.
Nel 1953 fonda l’ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi, destinato a cambiare per sempre la politica energetica italiana. Mattei rompe il monopolio delle compagnie anglo-americane con una strategia rivoluzionaria: propone ai Paesi produttori un accordo 75/25, lasciando loro il 75% dei profitti, in netto contrasto con il modello coloniale allora dominante.
Non è solo una questione economica: è una sfida geopolitica. L’Italia, potenza sconfitta e dipendente dagli aiuti del Piano Marshall, si erge a partner paritario del Medio Oriente e dell’Africa del Nord.
Dall’Egitto di Nasser all’Iran, dall’Algeria alla Libia, Mattei costruisce relazioni fondate su cooperazione e rispetto reciproco, ponendo le basi di una diplomazia energetica che oggi definiremmo sovranista e mediterranea.
Nemici potenti e interessi globali
Questo approccio lo rende un uomo scomodo.
Le Sette Sorelle — Exxon, Mobil, Gulf, Texaco, BP, Shell e Chevron — lo considerano un pericoloso concorrente. Gli Stati Uniti osservano con sospetto la sua politica di apertura all’Unione Sovietica, con la quale Mattei firma accordi petroliferi che scavalcano la NATO.
All’interno dell’Italia, settori della politica e dell’imprenditoria lo accusano di voler costruire uno “Stato nello Stato”: l’ENI, con il suo potere economico e mediatico (anche attraverso il quotidiano Il Giorno), diventa un centro di influenza autonoma. Quando il suo aereo esplode, nel 1962, Mattei è all’apice del potere. Sta negoziando nuovi accordi con l’Algeria indipendente e ha in programma un viaggio in URSS.
Molti, troppi, avevano interesse a fermarlo.
Un’inchiesta che non doveva nascere
Le prime indagini sull’incidente si muovono tra omissioni e incongruenze. Gli esperti dell’Aeronautica non trovano residui di esplosivo, ma non effettuano neppure analisi approfondite sui frammenti dell’aereo. Alcuni componenti del velivolo vengono dispersi, altri smaltiti senza autorizzazione. Le testimonianze di chi vide l’esplosione in cielo vengono archiviate. Eppure, il sospetto cresce. Nel 1963 il giornalista Fulvio Bellini pubblica un’inchiesta dal titolo Enrico Mattei è stato assassinato. È la prima volta che qualcuno lo scrive apertamente. Nel decennio successivo, il caso diventa simbolo di un’Italia che non vuole guardare nei propri archivi. Un Paese che, tra boom economico e Guerra Fredda, preferisce l’oblio alla verità.
Il simbolo di un’Italia che cercava autonomia
Mattei non era un santo, ma era un innovatore politico. Credeva che lo Stato potesse competere con il capitale privato e che la ricchezza pubblica dovesse servire a liberare il Paese dalla sudditanza energetica. Nel suo modello, l’impresa pubblica non era burocrazia, ma strumento di potere strategico. Questo lo poneva in rotta di collisione non solo con le grandi compagnie internazionali, ma anche con parte della classe dirigente italiana, più incline al compromesso atlantico che alla sfida mediterranea. Il suo carisma era tale da superare gli steccati ideologici: laici e cattolici, liberali e socialisti, tutti riconoscevano in lui un manager di Stato dotato di visione globale. La sua morte, improvvisa e misteriosa, segna la fine di quella stagione di ambizione nazionale. E apre la strada a un decennio di ombre, dove il potere si mescola al segreto e la verità diventa un bene raro.