Lo "ius scholae": integrazione e cittadinanza quale dovere costituzionale

Il Ministro degli Esteri e Segretario Nazionale di Forza Italia Antonio Tajani ha, da tempo, ribadito la volontà di Forza Italia di proseguire l'iter della pdl sulla semplificazione del processo di acquisizione della cittadinanza italiana.

In sintesi detta proposta introduce il concetto di "Ius Scholae" permettendo agli stranieri nati in Italia o arrivati entro il quinto anno di età che risiedano ininterrottamente per dieci anni e completino con successo il ciclo scolastico obbligatorio (5 anni di elementari, 3 di medie e 2 di superiori) di ottenere la cittadinanza italiana a 16 anni.

Il concetto di ius scholae risulta diverso ed autonomo, è bene precisarlo preliminarmente, dalle tematiche in tema di immigrazione irregolare che richiedono altro tipo di analisi e soluzioni politiche.

La precisazione è d'obbligo in quanto lo "ius scholae" risulta strutturalmente collegato alla immigrazione "regolare" sotto il profilo della integrazione quale elemento fondativo della cittadinanza.

La parola "immigrazione", all'attualità, risulta per lo più declinata, per la sua drammaticità,al tema eticamente, socialmente e giuridicamente complesso quanto ad analisi e soluzioni della immigrazione "irregolare".

Ed il fenomeno dell'immigrazione, in particolare di quella irregolare, conferisce al nostro tempo storico (ed uso le parole di Roberto Esposito) il carattere dell'epoca nel senso strutturale dell'espressione.

L'epoca non coincide con una datazione certa ma è ciò che unifica avvenimenti, anche radicalmente diversi, in un medesimo quadro significativo.

Lo stesso filo paradigmatico può legare fenomeni posti a grande distanza temporale. Da ciò discende una sorta di inversione del rapporto consueto tra un fenomeno ed il suo tempo.

Non è tanto o solo, il tempo a spiegare un fenomeno quanto un fenomeno ad illuminare il tempo diventandone "paradigmatico".

Ed è indubbio, come anche sottolineato dal presidente Donald Trump nel suo discorso alle Nazioni Unite, che la presente epoca sia caratterizzata, tra le altre drammaticità, dal fenomeno "immigrazione" che ne diventa paradigmatico.

Un fatto (e riprendo sempre le parole di Esposito) diviene paradigmatico quando pur nella sua singolarità illumina gli elementi costitutivi di una intera stagione che la differenziano dalle altre precedenti e successive indicandone il profilo in modo inconfondibile.

A buon diritto possiamo dire che la nostra epoca sia caratterizzata dal fenomeno dell'immigrazione su scala mondiale.

Lo ius scholae non si pone come fine il tentativo di analisi "genetico "causale" o "sincronico strutturale" del fenomeno dell'immigrazione irregolare bensì quello più limitato, ma determinante, di tentare la via dell'integrazione attraverso la cittadinanza in un contesto sociale caratterizzato dalla multiculturalità e dalla multireligiosità.

L'approccio paradigmatico dell'esame dello "ius scholae" consente di svincolarlo dalla rigida struttura dell'"attualismo" quale "idea" per dare una risposta di senso alle istanze poste dalla necessità strutturale dell'integrazione ai valori occidentali e laici (propri dello Stato italiano) con comunità culturalmente e religiosamente diverse (diverse anche al loro interno).

Non si sottovaluti l'idea .

Già Hegel aveva sostenuto che le idee non hanno solo una portata descrittiva, ma anche una valenza performativa.

L'approccio paradigmatico, svincolato quindi dalla stretta causalità lineare del tempo storico, consente di poter individuare il tema "integrazione dell'immigrazione" in altri contesti storici per coglierne difficoltà e soluzioni.

La nostra storia patria e precisamente quella della Roma della fondazione ci fornisce un primo spunto.

Riferisce lo storico Tito Livio che Romolo sul Mons Saturnium (approssimativamente l'area odierna che va dal Campidoglio al fiume Tevere) allo scopo di aumentare la popolazione della nuova città da lui fondata aprì un luogo di rifugio nell'area tra le due cime del Colle Capitolino (l'Arx ed il Capitolium vero e proprio) fossero essi liberi ma oppressi dai debiti o schiavi fuggiaschi: un Asylum  istituito come luogo sacro intitolato al Dio Asilo.

Il termine Asylum, ed uso le parole di Renato Del Ponte, designa un luogo la cui sacralità si giustifica sulla base dell'accoglienza di qualsiasi persona secondo un'ottica prettamente romana, un santuario per supplici che, se avessero voluto, sarebbero stati resi partecipi della cittadinanza.

La leggenda dell'Asilo (Giardina) risulta paradigmatica in quanto essa non parla soltanto di mescolanza etnica ma anche di mescolanza sociale.

La prima Roma, infatti, accolse individui sradicati, nobili decaduti e persino schiavi. Roma, prosegue il Giardina, nacque come una città aperta ai talenti in una sintesi di osmosi etnica e di osmosi sociale che presentava Roma come una polis che dava la cittadinanza agli stranieri e a degli ex schiavi in una misura assolutamente sconosciuta alle altre città.

Roma, in buona sostanza, risultava una comunità aperta sin dall'origine ed era anzi motivo di orgoglio il pluralismo etnico fondativo dell'origine della città: pluralismo etnico che metteva in seria difficoltà gli autori greci radicati nel pregiudizio "autoctono" come elemento valoriale fondativo delle città greche.

D'altronde era un fatto che l'Italia, e soprattutto il Lazio, fosse stato luogo di passaggio di infinite popolazioni: al punto da destare meraviglia negli storici che Roma non si fosse imbarbarita nonostante avesse accolto nel suo seno Opici, Marsi, Sanniti, Tirreni, Bruzzi, Umbri, Liguri, Iberi, Celti e molti altri popoli tutti differenti per lingua e costume.

L'autorappresentazione romana che, come indagato da Giardina, insisteva sull'eclettismo delle origini, aveva invece un duplice vantaggio: corrispondeva ampiamente ad una realtà storica protratta e interpretava il successo di Roma in chiave pluralistica privilegiando gli apporti del merito e delle capacità di contro a quelli della stirpe: in quest'ultimo senso non rappresentava non solo un originale mito di origine ma anche, in divenire, un efficace mito imperiale.

In buona sostanza quello di Roma era un "sangue culturale" e scorreva ovunque ci fossero individui che accettando la "fides" romana accettavano di vivere secondo il modo romano vale a dire rispettando quell'insieme di valori, convenzioni, regole e prestazioni ritenute indispensabili all'esistenza della romanità.

Un secondo spunto ci viene fornito dalla nostra storia patria degli anni successivi al 1880 e quindi in un periodo tra i più complessi della nostra storia a ridosso del Risorgimento e soprattutto dell'Italia post unitaria unificata, militarmente,  dal Regno Sabaudo ma sostanzialmente priva di una "idea" di appartenenza ad un'unica comunità nazionale.

Nel 1886 viene scritto il libro "Cuore" di Edmondo De Amicis: libro che ragioni di riflessioni ancora oggi ne offre molte.

Vediamo di analizzarle.

Il testo viene commissionato direttamente dal governo (i cui Parlamentari erano cooptati per classe e per censo tra la nobiltà di nascita o acquisita) alle prese con la gravissima situazione strutturale di un Regno formalmente unificato nella monarchia sabauda ma sostanzialmente non amalgamato nelle sue componenti originarie (basti pensare agli effetti territoriali duraturi del Reame Borbonico).

La scelta di De Amicis fortunato autore di romanzi “d’appendice” di vocazione socialista con un forte radicamento sulla realtà degli ultimi (classi subalterne ed impiegati) non fu certo unanime.

Come furono oggetto di grandi discussioni sia l’entità del compenso richiesto dall’autore sia la natura “rivoluzionaria” dell’impianto letterario.

Siamo in pieno Ottocento quando, salvo importantissime eccezioni soprattutto d’oltralpe, gli eroi o le eroine dei libri e dei romanzi sono per lo più re, regine, principi, duchi, contesse, baroni e marchesi e, ove non lo siano all’inizio del libro, attraverso un procedimento di agnizione, si verrà comunque a scoprire che sono comunque, al peggio, figli naturali dei suddetti titolati.

De Amicis, con un’intuizione folgorante, scuote la scena strutturandola dal punto di vista oggettivo in un luogo assolutamente inedito (la Scuola) e dal punto di vista soggettivo rendendo protagonisti due “eroi borghesi”: la Maestrina dalla penna rossa ed il Preside.

De Amicis ebbe lo straordinario merito di comprendere che l’elemento fondante del nuovo regno sabaudo esteso all’intera Italia avrebbe dovuto necessariamente strutturarsi nel pubblico insegnamento, nella scuola pubblica. E che i veri soldati dell’unificazione non sarebbero stati gli armigeri bensì i Maestri.

Impossibilitato ad avere un “modello ideale di italiano”, al di là da venire, De Amicis ebbe inoltre la straordinaria idea di esaltare virtù (vere o presunte) delle singole regioni componenti il regno per elevarle, con una transizione di fase più emotiva che letteraria, ad unità ideale di sintesi.

Così il Tamburino è sardo, la Vedetta è lombarda e via descrivendo per far sì che le realtà territoriali regionali non sentissero il peso della annessione militare in favore di un “orgoglio nazionale” unitario retto da vincoli di terra, sangue e diritto.

Nè manca, con spirito anticipatore, di descrivere il complesso mondo dell’emigrazione in una sorta di “globalizzazione ante litteram” dagli Appennini alle Ande.

Nonostante il titolo il libro è una straordinaria operazione di “marketing” politico perseguito con intelligenza da una classe politica cui tutto poteva venir rimproverato tranne che la cultura.

Classe politica che seppe capire l’importanza della sfera “pubblica” quale elemento di coesione e di appartenenza in superamento degli individualismi personali e locali.

Certo non si può chiedere a De Amicis di essere Marx (e non lo era) nè di essere Bakunin (e non lo era).

Ma non si può non notare, tralasciando per un momento la fotografia di una struttura sociale sostanzialmente statica, il rilievo dato alla funzione del pubblico, nella specie della scuola pubblica, alla formazione di un comune sentire che sarebbe poi diventato un sentire di patria.

Da quanto sopra emerge la necessità per il mondo romano  di strutturare l'integrazione dello straniero e/o dello schiavo liberato nella cittadinanza romana e quindi alla fides romana, per lo Stato Sabaudo di strutturare l'integrazione di soggetti unificati militarmente e amministrativamente in unico stato ma sostanzialmente "stranieri a se stessi" con la transizione di status da "stranieri interni" a cittadini "sudditi" con i relativi doveri ma anche le relative guarentigie.

Sia il paradigma integrativo romano che il paradigma integrativo sabaudo non richiedono (nè cercano) una "palingenesi" (o rinnovamento totale) dell'individuo bensì la sua integrazioni nei valori fondanti della comunità.

Nel sistema romano attraverso un percorso giuridico - religioso a mezzo del giuramento sacramentale; nell'ottica sabauda attraverso l'attuazione della formazione del cittadino suddito con l'ausilio determinante dei valori trasmessi dalla Scuola pubblica.

Non è difficile notare come in De Amicis la Scuola nel suo compito e strutturazione formativa del cittadino suddito adempia alla stessa funzione quasi "rituale" del tempo del Dio Asilo.

L'elemento sacrale, cioè di trasformazione dello straniero in cittadino attraverso un percorso culturale che porti all'identificazione con il sentire della società italiana ed occidentale, ben può dirsi all'attualità rappresentato dalla scuola nella sua concezione costituzionale.

Di solito il riferimento alla nostra costituzione è per lo più un riferimento ai diritti che essa garantisce: meno spesso ai doveri che essa impone (come quello della concorrenza alle spese pubbliche).

La nostra costituzione impone però dei doveri anche allo Stato in particolare l'articolo 2 che riveste un'importanza fondamentale anche per la sua struttura letterale.

L'articolo 2 della Costituzione infatti impegna la Repubblica Italiana a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'"uomo" mentre negli articoli successivi il riferimento è ai "cittadini".

La transizione di status, quindi, da "uomo non cittadino" a "uomo cittadino" è un dovere costituzionale che, come tale, non ha bisogno di essere inserito in alcun programma politico imponendosi, di fatto, come dovere di ogni governo in carica.