L'avidità che illude: una lettura psicologica tra leadership, potere e fragilità collettiva, dall'esempio di Meloni a Trump
Un'analisi psicologica delle posture politiche, tra fame affettiva, retorica identitaria e illusioni di onnipotenza
Tra posture machiste e strategie di seduzione simbolica, il potere politico moderno rivela un'avidità che non è solo economica, ma profondamente affettiva e identitaria. Uno sguardo clinico sulla scena internazionale e sulle fragilità di chi guida. "Non c’è pazienza più pura di quella che dedichiamo alle persone che ci stanno a cuore e rendono le cose più difficili del dovuto". In questa frase, intrisa di tensione emotiva e compassione relazionale, si incarna la distanza tra ciò che vorremmo essere e ciò che spesso diventiamo sotto l'effetto anestetizzante del potere e dell'avidità. Assistiamo a dinamiche affettive, relazionali e identitarie che si logorano sotto il peso di illusioni di onnipotenza e idealizzazioni fallaci. Un desiderio irrefrenabile di riscatto, che invece di guarire, finisce per produrre dolore e alienazione. Nel panorama politico attuale, il fenomeno non è dissimile: il potere crea illusioni.
Il recente viaggio istituzionale della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni negli Stati Uniti e l'incontro con Donald Trump ha offerto una scena apparentemente distesa. Lo scambio, sebbene accompagnato da sorrisi e gesti di apparente cordialità, è sembrato privo di autentica connessione. Gli sguardi si incrociavano, ma si ritraevano subito. Una comunicazione più coreografica che sostanziale, incapace di reggere un vero contatto emotivo.
Lo scollamento relazionale è stato evidente, tanto che uno dei momenti salienti è stata una battuta lusinghiera sull'intonazione della voce della Meloni. Un apprezzamento che ha spostato il piano della relazione verso una dimensione estetica, superficiale, quasi para-erotica – ovvero giocata sul fascino e sull'ambiguità sensoriale più che su una vera relazione. Una modalità che, da un punto di vista clinico, evidenzia la difficoltà a instaurare rapporti autentici, mascherando la fragilità identitaria sotto l'illusione del controllo e della conquista. Questa forma di interazione è governata dalla logica dell'apparenza, dove i segni dell'umano restano in superficie, schermati da una regia comunicativa che privilegia l'immagine rispetto alla relazione. È proprio qui che si insinua l'avidità: non solo come brama materiale, ma come fame affettiva, bisogno insaziabile di validazione e appartenenza. Un tentativo maldestro di coprire il disagio di una società narcisisticamente ferita.
Il modello americano, fatto di sfarzo, grandiosità e successo spettacolarizzato, è il sintomo, non il traguardo. Rappresenta un disagio esistenziale profondo che si esprime attraverso l'accumulo, la performance, l'iperproduzione dell'io. Meloni sembra accorgersi di non avere a che fare con poteri legittimati da un'etica condivisa ma con identità deviate da interessi personali e da una concezione relazionale del potere che ignora la reciprocità e l'empatia. Altrimenti, in psicologia delle relazioni, si parlerebbe di dinamiche co-dipendenti: configurazioni in cui un soggetto finisce per identificarsi nel bisogno dell'altro, rinunciando progressivamente al proprio Sé autentico. In una prospettiva psicologica e relazionale, quanto può essere pericoloso per chi ha la responsabilità di rappresentare una collettività identificarsi troppo con l'altro, fino a perdere contatto con la propria identità politica, culturale ed emotiva?
Anche la visita a Roma di J.D. Vance –prima critico di Trump nel 2016, poi sostenitore convinto in occasione della sua corsa al Senato– conferma la complessità simbolica di queste dinamiche. La sua presenza in Italia veicola messaggi ambivalenti: da un lato, volontà di rinsaldare rapporti strategici; dall'altro, un impianto comunicativo performativo, fatto di sottotesti ideologici e narrazioni contraddittorie.
Parallelamente, le nuove intese strategiche tra Italia e India offrono spunti di riflessione: il rischio è che paesi emergenti, affamati di riscatto come lo eravamo noi nel dopoguerra, vengano inghiottiti dalla stessa matrice di sviluppo disfunzionale. Un capitalismo che, se non regolato e umanizzato, genera alienazione, disagio psichico e una società affetta da ipertrofia del fare e atrofia dell'essere.
Oggi, come sistema-Paese con una storia alle spalle, abbiamo una responsabilità etica ed epistemologica: tracciare linee guida per un benessere esistenziale sostenibile. Un benessere che non sia solo economico o produttivo, ma che sappia prendersi cura delle vulnerabilità, dei limiti cognitivi ed emotivi dell’essere umano. Un benessere che riconosca la fragilità come valore fondativo, non come ostacolo alla crescita. Serve una leadership emotivamente consapevole, capace di integrare il proprio mondo interno –fatto di paure, insicurezze, memorie traumatiche– con le esigenze reali del popolo che rappresenta. Basta con la retorica del machismo istituzionale, con le posture da dominatore e le logiche di sopraffazione che alimentano soltanto dissociazione e conflitto.
In qualità di psicologo e consulente in sessuologia, so bene quanto le relazioni –intime, sociali, istituzionali– siano regolate da dinamiche di potere, desiderio e riconoscimento. Ma solo quando queste dinamiche si fondano sulla verità emotiva, sulla vulnerabilità accolta e su una comunicazione empatica, possono produrre reale trasformazione. Per questo oggi più che mai dobbiamo guardare alla politica con occhi clinici, per restituirle un'anima. Perché dietro ogni scelta economica, ogni alleanza strategica, ogni incontro istituzionale, si muovono le stesse forze che abitano dentro ciascuno di noi: la fame d'amore, la paura dell'abbandono, la ricerca di senso. E solo chi sa ascoltarle, riconoscerle e integrarle, può davvero guidare un popolo verso un futuro più umano, giusto e sostenibile.
Nota biografica autore: l'autore è psicologo clinico, consulente in sessuologia e psicoterapeuta in formazione. Osserva e analizza le dinamiche sociali e politiche attraverso l’ottica della psicologia relazionale ed evolutiva, integrando prospettive emotive, identitarie e culturali nei processi di trasformazione collettiva.
di Edoardo Trifirò, psicologo e consulente in sessuologia