Strage di via d'Amelio, all'anniversario della strage Giorgia Meloni coi piedi di piombo e l'antimafia ricattatoria che la avverte e la blandisce
I vecchi "professionisti dell'antimafia" hanno fatto carriera, stanno dappertutto, possono imporre la loro agenda al governo, incassano da tutte le parti: ma quando mai questo circo falsamente legalitario ha risolto o migliorato qualcosa?
I professionisti dell’antimafia di sciasciana memoria hanno fatto carriera in un modo che forse neppure Sciascia avrebbe immaginato: oggi sono professionisti di tutto, professionisti del professionismo, non esiste luogo, contesto, cerimonia, situazione che ne possa prescindere. Insomma non gli si può dire di no, alle loro proposte nessuno può rifiutarsi, neppure un capo di stato o di governo. Influencer della legalità ma una legalità elastica, sentimentale, da Baci Perugina, la processione di slogan, i quindicimila in piazza, a giro, saldata sempre con le solite agitazioni della sinistra visionaria e penitenziaria, i migranti, il clima, l’anticapitalismo. Ma non c’è capitalista più capitalista di un antimafia. Perché tutto quello che fa, lo fa per soldi. Professionisti a 360 gradi, hanno cominciato dal lamento memorialistico e si sono infiltrati, proprio come la mafia, in tutti i gangli, i settori del vivere civile e incivile, principalmente la politica che è il sogno di ciascuno. E quasi tutti li ho conosciuti, questi parenti in servizio permanente effettivo, questi abbonati alla lacrima facile e alla rivendicazione ancora più facile, ne ricordo una, una donnetta stupida e petulante che ebbe persa la figlia in una strage: ad ogni convegno o commemorazione tirava fuori il discorso precotto, durato decenni: “Siamo stanchi signor presidente! Vogliamo la verità”. L’avevano addestrata ad insinuare che dietro le stragi c’era Berlusconi e lei ad ogni occasione tornava, inesorabile come una biblica maledizione. Il signor presidente di turno passava e lei sempre lì, con la protesta non si capiva bene verso cosa, verso lo stato assassino e mafioso che non faceva luce ma che lei disperatamente non rinunciava a frequentare, a supplicare, a suo modo, e cene, e trasferte, sempre con quel sogno tacito nel cuore, il parlamento, il laticlavio. Finché alla fine è passata anche lei. Un’altra, una volta mi premiò in una cerimonia antimafia ad alto tasso mafioso nel profondo Su, una di quelle targhe di latta insieme a cento altre ma prima trovava modo di sibilarmi: vedi di non fare i tuoi soliti casini che qui c’è gente importante. E voleva dire: tutta la borghesia politica e mafiosa che ci fa comodo, che ci permette questa vita perennemente in tour senza mai combinare niente. E faceva un discorso vibrante contro le raccomandazioni che sono la cellula tumorale da cui si sviluppa la metastasi mafiosa, poi finiva e mi veniva a cercare: tu scrivi per un giornale musicale, vedi di raccomandare mio figlio che vuol fare il musicista. Era la stessa che una volta avevo visto passare dalla Macarena alle lacrime più rotte in una intervista, finita la quale tornava a fiondarsi nel vortice del ballo. Se davvero lo stato fu complice degli eccidi dei loro cari, allora bisogna concludere che il regalo più grosso lo ha fatto a questi parenti che da allora vivono di rendita e buona rendita.
L’antimafia dei mestieranti, dei parassiti e dei pannolini, come la chiamava il mio ex amico Saro Crocetta che poi ne combinò tali e tante da ritenere più prudente eclissarsi in Tunisia, terra di mai sopite passioni. C’era uno che agitava la chioma, il foulard un po’ modello armocromatico, in anticipo, e un po’ centro sociale: millantava attentati e minacce che nessuno si era mai sognato di rivolgergli e così è arrivato a fare qualche librettino legalitario sconosciuto e a svuotare i cestini della carta in Rai. Ma almeno c’è arrivato, che è sempre meglio che far qualcosa. Ossessionati dalla cosiddetta legalità, navi legalitarie, dirigibili legalisti, sempre quei due o tre slogan, “non abbassare la guardia”, “tenere alta la testa”, come diceva anche quella preside antimafia che rubava perfino sulle scatolette e sui computer della scuola. Già, tante belle formule ma la realtà parla una lingua diversa, racconta di un Sud che non riesce a scrollarsi di dosso la mafiosità come fatalismo o condizione endemica, dice di una rassegnazione fondata sul razzismo autoassolutorio o su iniziative velleitarie. L'antimafia dei pannolini e dei raduni narra di tante carrierine cominciate nelle piazze e finite nel sottobosco editoriale, le vetrine dei librai rigurgitano di titoli antimafiosi che ormai ingenerano nausea da saturazione, anche perché chiaramente faziosi: agende rosse, impunità asserite, teoremi, dietrologie, l'antimafia politica è micidiale, una sacra inquisizione a senso unico che finisce per fagocitare i suoi stessi apostoli. Degno capolinea di un processo legislativo sempre più ideologizzato e come tale ossessivo, l'ultimo codice dell'Antimafia, poi provvidenzialmente disinnescato perché era una specie di Sillabo che, ne raccontò in modo dettagliato Alessandro Barbano nel saggio “Troppi diritti”, serviva ad inchiodare alla lettera scarlatta chiunque in virtù del semplice sospetto. Con la conseguenza di una strage produttiva di cui poco si parla ma molto si patisce, da sempre: attività stroncate, industrie uccise, prospettive abortite. Beni, strumenti, proprietà finiscono, per combinazione, sempre nelle solite mani dei santini, santoni o mammasantissima, quando non abbandonati alla loro sterilità. Cosa sulla quale i volonterosi zelanti dell'antimafia estetica non trovano mai di che protestare, et pour cause. Questo scriveva Barbano: “Alla fine della scorsa legislatura il presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e un gruppo agguerrito di parlamentari del PD hanno promosso, difeso con i denti e imposto a una esangue maggioranza parlamentare un provvedimento ispirato e per certi versi dettato dall'associazione antimafia Libera, che tutti i più autorevoli giuristi italiani, nessuno escluso, di ogni scuola e area, hanno definito “inutile, dannoso e anticostituzionale” (…). Il nuovo codice antimafia ha legittimato un sistema penale in cui non è più necessario acquisire le prove, ma è sufficiente alimentare sospetti che non siano immediatamente fugabili, e annientare con la clava di un pm onnipotente la maestà di un giudice terzo inerme. Così una gigantesca manomorta giudiziaria, grazie ai sequestri e alla confische, conta oggi qualcosa come 18.000 aziende e un patrimonio stimato di 21 miliardi di euro, destinato in nove casi su dieci al fallimento”.
Che barba, che noia l’antimafia virtuosa dei possibilisti, dei diplomatici che se uno gli fa comodo fingono di non sapere, distinguono, tirano in ballo il genius loci, l’entrismo che dovrebbe disinfestare e finisce invece per contagiare. E che squallore questo riproporsi costante di facce in soccorso di qualsiasi vincitore, magari uno che fino a ieri, da perdente, avevano lapidato. Ho sentito gente dire roba folle, “a mio fratello l’hanno saltato col tritolo ma quello che hanno fatto a Gigi è molto peggio”. E Gigi era il de Magistris cacciato dalla magistratura e politico controverso che amministrava Napoli coi centri sociali, infine scaricato perfino dal suo sponsor Travaglio.
Non ho mai visto un antimafia senza scheletri nell’armadio e non ne ho mai sentito uno dire cose ragionevoli o interessanti. Tutti figli della medesima sottocultura mafiosa, anche i giudici che dei grandi boss parlavano come di personaggi mitologici, volti al male ma di livello superiore e ci sentivi, al di là della vanità di chi li aveva acciuffati, un afflato sincero, complice, se io mi provavo a definire questi boss dei disadattati che, con diecimila miliardi a disposizione, vivevano rintanati in tuguri sotterranei, subito mi fulminavano: taci, tu, che non sei siciliano o napoletano e non puoi capire.
La tecnica di tutti questi antimafia è semplice: punzecchiano lo stato ritenendolo complice o artefice delle morti dei loro parenti, ma non lo attaccano direttamente, si aspettano elargizioni a vita, insomma mandano pizzini. E le elargizioni arrivano, da tutte le parti: dallo stesso stato, da fonti comunitarie, nonché per le vie tortuose e misteriose dei mille rivoli finanziatori. Basta una fondazione e i soldi piovono, poi, di facciata, si fa qualche convegno, qualche visita nelle scuole, “non abbassare la guardia, tenere alta la testa”, e si fa festa al ristorante e in banca. Adesso tocca alla Meloni, indotta a barcamenarsi nell’anniversario di via d’Amelio: da primo ministro sa di non potere rinunciare a intervenire a una ricorrenza pubblica, ma sa pure che non può permettersi il rischio di una sfilata che la esporrebbe a contestazioni strumentali. Da una parte l’antimafia rossa la avverte, la minaccia al modo sottile che usa in Sicilia, dall’altra la blandisce e si mette “a disposizione” nel modo mellifluo e pericoloso che usa in Sicilia. E in tutto il Sud che, come dice ogni presidente, vincerà la lotta contro la illegalità, ma con comodo. Se davvero vogliono vincerla questa lotta, cominciassero a segare via tutto quel circo osceno dell’antimafia parassitaria e mafiosa che succhia soldi e alimenta la mafia: impresari, domatori e pagliacci invecchiano, muoiono ma non c’è mai stata nessuno lì in mezzo in grado di risolvere qualcosa, di migliorare qualcosa, tranne la condizione personale; l’intransigenza di facciata è sempre stata un’arma politica, una lupara contro chi non si inginocchiava, non si disponeva alla rapina a man salva con cui depredare lo stato e i suoi enti distaccati fingendo di bonificarli.