Autonomia differenziata, non è un problema di soldi ma di efficienza: ciò che divide Nord e Sud
Il tema dell'Autonomia differenziata è tornato in auge dopo la nuova riforma Calderoli: non si parla di soldi, la Lombardia versa nelle casse statali circa 60 miliardi di euro ogni anno, mentre Sicilia, Campania e Puglia ne assorbono da sole circa 25 miliardi di euro ogni anno
Nel 1861, quando nacque il Regno d’Italia, i padri fondatori adottarono quale Carta Costituzionale, lo Statuto Albertino. Era uno statuto accentratore, che favoriva l’integrazione dei tanti stati e staterelli che avevano concorso alla nascita dell’Italia.
L’accentramento aumentò durante il fascismo e soltanto nel 1948, dopo la nascita della Repubblica Italiana, la nuova Costituzione, per esplicita volontà dei padri costituenti, previde la nascita delle Regioni, per rendere più flessibile e più efficiente lo Stato.
Si riteneva infatti che un equilibrato decentramento funzionale ed amministrativo, avrebbe da un lato ridotto la pletorica burocrazia statale e dall’altro avrebbe sfruttato e valorizzato le energie e le peculiarità delle varie zone e territori del paese, facendo emergere usi, costumi, abitudini, assetti sociali ed economici locali.
Era stata una scelta logica e rispondente alle nuove realtà ed esigenze del paese.
Inserite in Costituzione, le Regioni rimasero però lettera morta per oltre venti anni, finché, nel 1970, divennero legge dello Stato. Furono fissate in numero di 15 a statuto ordinario e di 5 a statuto speciale. Fra queste ultime Sicilia e Sardegna.
La spinta politica per la loro creazione venne soprattutto dal Partito Comunista Italiano. Quel partito infatti era destinato a rimanere fuori dal governo centrale, a causa delle rigide clausole del trattato di Yalta, che escludevano rigorosamente un governo comunista in Italia.
Pertanto il PCI premeva per gestire, in modo istituzionale, un proprio autonomo potere, almeno in quelle zone decentrate, come Emilia Romagna, Toscana ed Umbria, dove mieteva larghi consensi elettorali.
Questa motivazione politica ha inquinato all’origine il percorso delle Regioni, perché ne ha snaturato in parte le motivazioni originarie.
Il PCI infatti, una volta ottenuto il risultato di impadronirsi dei posti nelle assemblee e nelle giunte regionali, e di poter assumere i funzionari locali, si è via via disinteressato degli scopi istituzionali, per cui erano state pensate le Regioni stesse. Meno che mai la DC che aveva scarsamente, fin dall’inizio creduto in questi istituti e si era lasciata trascinare dal PCI.
Ancora meno infine i partiti liberaldemocratici, guidati da La Malfa e Malagodi, che si sono sempre opposti alla nascita delle Regioni, considerate un costo insopportabile per l’Italia.
Lo scopo originario della creazione delle Regioni, quello di alleggerire e decentrare una parte dei compiti gravanti su una pletorica ed inefficiente burocrazia statale, mobilitando energie e risorse locali, era andato pertanto via via smarrendosi.
Il risultato, assai deludente, è stato quello di ridurre drasticamente le numerose competenze decentrate, previste ed elencate agli articoli 116 e 117 della Costituzione. Fra le tante, mi riferisco alla ricerca scientifica, all’alimentazione, al turismo, all’ambiente, ai beni culturali, all’innovazione, alla produzione ed alla tutela del lavoro.
Il fatto che il 90% dei bilanci delle Regioni, sia oggi coperto dalle spese soprattutto sanitarie e in misura minore dei trasporti, dimostra come sia fallito lo spirito originario, che aveva portato alla nascita di tali istituzioni.
Nel caso delle Regioni a statuto speciale, la musica è stata invece completamente diversa. A volte le competenze attribuite sono enormi. Basti pensare alla Regione siciliana, in cui è stato concesso lo strapotere di trasferire, in ambito regionale, strutture e competenze della Polizia di Stato, decentrando così non solo le attività amministrative, ma addirittura un potere sensibile dello Stato, esercitato attraverso il Ministero degli Interni.
Lascia pertanto perplessi l’accanimento con cui il cosiddetto mondo progressista, a suo tempo principale promotore delle Regioni, abbia oggi esponenti di punta, quali i Governatori di Puglia e Campania, che si oppongono radicalmente alle autonomie differenziate e cioè alla possibilità di continuare nel disegno originario dei costituenti, di decentrare altre funzioni, oltre alla sanità e ai trasporti.
Tutto ciò non ha niente a che vedere con il denunciato divario tra Nord e Sud, ma soltanto con la volontà di chi, come la maggior parte del paese, vuole cogestire in loco il proprio futuro, in opposizione a chi, nella cultura del reddito di cittadinanza, preferisce demandare, ad uno Stato indolente e pasticcione, funzioni possibilmente locali.
Oggi, se la Lombardia non avesse avuto da 50 anni la competenza sanitaria, non sarebbe certamente meta di decine di migliaia di pazienti da tutta l’Italia e non sarebbe considerata una delle migliori strutture sanitarie europee.
I due governatori del Sud che gridano allo scandalo, parlano soprattutto di pericolo per il trasferimento di tasse dal centro Nord al Sud che, nella fattispecie, non c’entra nulla con il dibattito sulle autonomie differenziate.
Tale trasferimento esiste da anni e ci dice che la Lombardia versa nelle casse statali circa 60 miliardi di euro ogni anno, mentre Sicilia, Campania e Puglia ne assorbono da sole circa 25 miliardi di euro ogni anno.
Nell’attuale proposta di autonomia differenziata, non è mai stato posto un problema di soldi, che non esiste poiché in quel settore nulla cambia. Si parla soltanto di efficienza, di meritocrazia e di responsabilità, concetti che rappresentano il vero divario tra Settentrione e Meridione d’Italia. Come sostiene Giustino Fortunato, il maggiore intellettuale del Mezzogiorno dall’unità d’Italia ad oggi, il problema del Sud non sono i soldi, ma la modernità della cultura e della mentalità locale.
di Pierfranco Faletti