Oltre 1.500 PMI italiane con fatturato tra €50 e 200 mln a rischio indebitamento elevato, mercato del turnaround equity potenziale da €8-12 mld

Secondo Confindustria e Banca d’Italia, circa 2.400 imprese manifatturiere con più di 50 dipendenti presentano vulnerabilità finanziaria; ogni operazione di rilancio richiede mediamente €15-35 mln, tra capitale di rischio e strumenti dedicati

I numeri fotografano un paradosso del sistema industriale italiano. Secondo Confindustria oltre 1.500 PMI manifatturiere con fatturato tra 50 e 200 milioni presentano indici di indebitamento elevati e criticità di sottocapitalizzazione.

Non aziende decotte, ma realtà con attivi di valore e competenze distintive, spesso leader nelle loro nicchie, che fronteggiano squilibri finanziari e patrimoniali aggravati dalla difficile congiuntura anche internazionale.

A complicare la situazione contribuiscono le complesse procedure utilizzate per l’erogazione del credito ordinario. Le banche, vincolate da stringenti requisiti regolamentari faticano a supportare proprio le imprese che ne avrebbero maggiore necessità. Non da ultimo, le banche sono sempre più pressate dai propri portatori di interesse a modificare i modelli di business, riducendo l’esposizione verso imprese e famiglie per irrobustire la presenza in contesti più redditizi, in linea con gli istituti più performanti: statunitensi e cinesi in primo luogo

L’ultimo Rapporto sulla Stabilità Finanziaria di Banca d’Italia conferma questa dinamica e l’ISTAT evidenzia che circa 2.400 imprese manifatturiere con più di 50 dipendenti presentano indicatori di vulnerabilità finanziaria, mentre EY ha sottolineato come il credit crunch colpisca proprio chi potrebbe beneficiare di una ricapitalizzazione mirata. Queste aziende non trovano gli strumenti finanziari per il rilancio. Nulla di straordinario: i loro attivi rispecchiano in molti casi importi limitati rispetto al reale valore d’impresa, perché le componenti intangibili (quali marchi, processi e tecnologie non brevettabili, customer database…), non vengono normalmente riflesse nello stato patrimoniale. Ne deriva un vuoto tra la ristrutturazione del debito e la liquidazione, spesso giudiziale, che in altri Paesi viene almeno parzialmente colmato attraverso programmi pubblico-privato che facilitano l’accesso a strumenti di rilancio per le PMI in difficoltà, combinando credito agevolato, garanzie e, in alcuni casi, interventi di capitale di rischio La questione è tanto culturale quanto organizzativa.

Il turnaround equity, spesso identificato anche con l’espressione “fondi avvoltoio” o “vulture fund” sconta croniche e spesso ingiustificate diffidenze: viene percepito come “macelleria sociale” e come operazione ad alto rischio. Uno studio su 241 operazioni buyout europee dimostra invece che i tassi di default sono solo marginalmente superiori agli LBO tradizionali, a fronte di rendimenti potenziali molto più elevati. Intendiamoci: una ristrutturazione, una riorganizzazione o un rilancio sono infinitamente più complicati senza una iniezione di capitale di rischio, destinato a riequilibrare le fonti e ad alleggerire l’impresa dalla morsa del costo del debito. Le banche potrebbero assumere un ruolo determinante in proposito, promuovendo e partecipando a iniziative dedicate, disponendo altresì, di reti commerciali capillari, della conoscenza diretta del territorio e di dati che potrebbero tradursi in un vantaggio competitivo significativo.

La dimensione potenziale del mercato italiano si stima tra 8 e 12 miliardi di euro, con fabbisogno medio per operazione tra 15 e 35 milioni. Raggiungerla richiede però un cambio culturale di prospettiva. Ogni PMI che chiude, pur disponendo di prospettive concrete, rappresenta dispersione di know-how, relazioni commerciali e cultura aziendale accumulata in decenni, oltre alla distruzione di tutti i beni intangibili contabilmente assenti dal loro stato patrimoniale. Sappiamo tutti quanto importanti siano questi beni, in un contesto dove tanto le materie prime, quanto le tecnologie non sono facilmente reperibili da parte delle imprese. Un impoverimento che dovrebbe sollecitare l’attenzione di chi ha responsabilità verso il sistema economico nel suo complesso.

Il dibattito tra governo e banche sul tema degli extraprofitti, che periodicamente si riaccende, potrebbe trovare una soluzione più strutturale proprio in questa direzione. Anziché nuove tassazioni o prelievi una tantum, si potrebbero incentivare gli Istituti di Credito a destinare parte delle rilevanti risorse accumulate negli ultimi anni verso investimenti nell’economia reale e segnatamente a sostegno del capitale di rischio delle imprese in temporanea difficoltà ma meritevoli di mantenere la continuità. Ciò potrebbe avvenire attraverso veicoli (fondi) costituiti per lo scopo, dimostrando che redditività e sostegno al sistema produttivo italiano non sono obiettivi antitetici ma complementari e, soprattutto, coerenti con la loro funzione istituzionale.