Fusione Vodafone- Fastweb chiude una stagione, la storia di Omnitel e i processi di rinnovamento espressi dall'industria privata
Dall'eredità Olivetti alla prima banda larga, dalle privatizzazioni alle aste; le intuizioni di Piol e l'ascesa di Colao, le campagne con Megan Gale: racconto di un primato (perduto)
Ci sono storie d'aziende che raccontano molto più del prodotto o servizio che hanno venduto, perché hanno colto e rappresentato un momento della storia sociale ed economica del proprio Paese. È sicuramente il caso di Vodafone Italia, al secolo Omnitel, ora confluita definitivamente nella galassia Fastweb. Dal punto di vista industriale non c’è dubbio che le telecomunicazioni, molto frammentate in Europa rispetto al modello Usa, avessero bisogno di un accorpamento, disossate dalla guerra al ribasso delle tariffe e trasformate da gallina dalle uova d’oro in «stupid network», reti stupide, dagli Over the top come Google. Ma senza voler scivolare in un Amarcord, Omnitel Vodafone ha rappresentato una finestra in Italia forse unica, il tentativo felliniano di essere ambiziosi e di poter contare sullo scacchiere internazionale prima che una certa apatia industriale prendesse il sopravvento.
Omnitel è stata l’ultima avventura riuscita dell’Olivetti negli anni Novanta, certo non la Olivetti di Camillo e Adriano, ma comunque una sfida che non aveva il confine alpino come perimetro. Evidentemente era rimasto nei corridoi di ciò che restava di un nome storico e prestigioso finito male uno spirito animale capace di tentare di occupare uno spazio che ancora non c’era. Si trattò al tempo di cogliere un crocevia unico: l’arrivo della telefonia mobile, un cambio che aveva visto la rinascita di vecchie industrie come Nokia passata dal legname e la carta al dominio dei telefonini, e al contempo la fase delle privatizzazioni e dunque delle aperture di mercato.
Momenti in cui un velociraptor startup poteva pensare di affrontare un T-Rex incumbent Omnitel, poi diventata Vodafone Omnitel e infine solo Vodafone, ha rappresentato tutti i processi di rinnovamento che l’industria privata ha saputo esprimere negli ultimi 30 anni. C’è da rifletterci.
Manager e testimonial
Dietro questo salto nel buio imprenditoriale c’era non a caso, tra gli altri, anche il padre del venture capital italiano, Elserino Piol, oltre a Carlo De Benedetti. Inpoco tempole privatizzazioni delle tlc portarono all’apertura delle aste, al tentativo di creare un nuovo equilibrio basato sul capitalismo made in Italy versus gli ex incumbent, al terreno di coltura di una nuova generazione di manager di cui Vittorio Colao è stato il portavoce e alla capacità rampante di cogliere uno dei grandi crocevia industriali con la nascita delle tlc mobili. Il risultato fu un momento anche di vero lobbismo in Italia, secondo solo, anni prima, all’arrivo delle tv commerciali versus la Rai che aveva visto Silvio Berlusconi come protagonista: si trattava difatti di scrivere delle nuove regole del gioco.
Gli italiani sono stati consumatori onnivori di telecomunicazioni: materia per sociologi nemmeno troppo raffinati. Abituati come siamo a parlare, parlare, parlare in effetti, a distanza di anni, il successo può apparire come l’uovo di Colombo. Tanto che Vodafone Italia a sua volta è stata per anni la gallina dalle uova d’oro della capogruppo inglese scalata dallo stesso Colao fino ad arrivare alla poltrona di ceo mondiale.
Ma gli inizi non furono facili: altri mercati come quello inglese si erano aperti ma il mondo statale dietro la Sip si chiuse a tartaruga. Siamo negli anni di Tangentopoli. L’Italia è squassata dall’esplosione del bubbone del finanziamento ai partiti. A supportare la Omnitel c’è la Bell Corporation che però non basta.
Servono anche i tedeschi della Mannesmann che si alleano a Ivrea con Pronto Italia. Alla fine è questa l’offerta (770 miliardi di lire, rialzata all’ultimo) che prevale nel 1994, contro la cordata Agnelli-Berlusconi. Ma ci vorrà un altro anno per convincere la recalcitrante Sip, battezzata nel frattempo Telecom Italia, ad aprire le convenzioni. Il mercato è pronto: quando Omnitel riesce ad aprire è un successo senza precedenti.
Da lì in poi, con mille cambi rocamboleschi (le quote Omnitel passano a Mannesmann mentre la Olivetti diventa il cavallo di Troia per conquistare Telecom Italia ai tempi di Colaninno) Omnitel diventa un laboratorio di marketing moderno, comunicazione e innovazione che sembra proiettare l’Italia verso nuovi confini. I ruggenti anni Novanta. Alla fine del secolo scorso arriva anche una giovane top model australiana a fare da testimonial del brand di telefonia mobile, Megan Gale, entrata nel pantheon degli italiani, nonostante qualche scivolone messo a posto dal potente ufficio comunicazione (passò alla storia la risposta ingenua e sincera a un giornalista a cui Gale riferì di non usare i telefonini in realtà perché pensava che facessero male, cosa non del tutto sbagliata al tempo del servizio Tac).
Al picco dell’esuberanza arriva anche la sponsorizzazione della Ferrari di
Schumacher, con una nemmeno tanto subliminale sovrapposizione del rosso del cavallino di Maranello con il rosso del brand Vodafone che si contrappone al blu di Telecom. Armocromia in salsa commerciale.
Non c’è stato solo Colao a testimoniare come Vodafone in 30 anni sia stata una palestra di manager e un laboratorio di crescita: prima di lui c’era stato Francesco Caio, poi salito anche nel board mondiale di Motorola e diventato il ceo di Cable & Wirelles. E Silvio Scaglia. Alla scuola Colao i manager cresciuti sono stati tanti, in primis Paolo Bertoluzzo, oggi artefice della rivoluzione Nexi, ma anche Aldo Bisio, l’ultimo traghettatore dell’azienda prima della fase di smantellamento che ha lasciato il grattacielo fuori Milano in un silenzio desolante.
Per anni passare per Vodafone ha significato orgoglio di appartenenza. Un
club di cui andare fieri. Oggi si capisce perché ci sia un riassetto. E forse è per questo che il racconto di Omnitel è il racconto dell’Italia a cavallo degli anni Duemila con speranze e delusioni. Vodafone (come gli altri operatori), nonostante facesse ormai parte del primo gruppo mondiale di telefonia mobile, non è riuscita a portare a casa la partita dei contenuti a pagamento. Pur avendo tentato. Con musica, sport, cinema.
Non è un caso, appunto, che i grandi gruppi provenienti dalla Silicon Valley siano stati chiamati Over the top. I top erano loro, gli operatori. Una volta erano guerrieri. L’ultima grande guerra di Vodafone contro Telecom è stata quella per la separazione della rete, tormentone, usata come arma per rallentare le crescite altrui a discapito anche della propria (l’attaccamento fuori tempo massimo al rame è stato una delle cause del ritardo dell’Italia nel digitale: una banda stretta che ha rappresentato l’ultima illusione dell’industria di poter sopravvivere nel pleistocene senza innovare). Per gioco del destino, tra le prime assunte da Caio nel 1994 ci fu Margherita Della Valle, oggi ceo mondo di Vodafone che ha firmato il Requiem della storia: ora tutto ciò è passato. Ma valeva la pena ricordarlo un’ultima volta.
Fonte: Corriere Economia