Assolobarda, il discorso integrale di Alessandro Spada: "Se fosse un’economia nazionale, questo territorio sarebbe decimo per PIL in Europa"
In occasione dell'Assemblea 2024 di Assolombarda “L’Impresa che è in noi”, l'intervento di Alessandro Spada, direttore di Assolobarda: "Gli obiettivi: puntare sul nucleare, ridurre la pressione fiscale e il peso della burocrazia, accelerare sugli investimenti"
Alessandro Spada, Presidente di Assolombarda, in occasione dell'Assemblea generale 2024 ha dichiarato:
"Ministro delle Imprese e del Made in Italy della Repubblica italiana, Autorità tutte,Care colleghe e cari colleghi, Care studentesse, cari studenti, Sono onorato di darvi il benvenuto all’Università Bocconi, dove abbiamo voluto tenere l’Assemblea Generale di quest’anno. Ci troviamo in un luogo che è un simbolo di quello che Milano rappresenta per l’Italia e per il mondo: un crocevia di idee e un magnete di talenti. Un’eccellenza accademica internazionale e un vero e proprio tempio della riflessione e della ricerca economica europea. Oggi cercherò di parlarvi di come l’impresa vuole dare un contributo per costruire una nuova Europa.
La nostra impresa – l’impresa che è in noi - è il motore che aggancia l’Italia al cuore dell’Europa. Gli ultimi mesi si stanno rilevando più complessi del previsto a causa di numerosi fattori esterni ma, se guardiamo al recente passato e, più in generale, agli ultimi anni, grazie a tutti voi e ai vostri collaboratori ci possiamo confrontare direttamente con i numeri delle principali economie europee! Con interi Paesi, come Germania, Francia, Spagna. Tanto che, se la considerassimo come un’economia nazionale, sui 27 Paesi dell’Unione Europea, la Lombardia sarebbe 10° per PIL (con 480,6 miliardi di euro nel 2023), subito dopo l’Irlanda e prima di Paesi come Austria, Danimarca, Finlandia. Più del doppio della Grecia! Più del 58% di questo valore è generato dai territori raccolti in Assolombarda: Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia. L’economia lombarda performa meglio delle principali economie europee: rispetto al pre-Covid19, questo territorio è quello che sia in valori assoluti sia in valori pro-capite è cresciuto più di tutti. Tra il 2019 e il 2023 il Pil della Lombardia è, infatti, cresciuto del +6,7%. Mentre l’Italia ha fatto + 4,6%. La Spagna +3,6%. La Francia +2,4%. La Germania solo +0,5%. Un’Europa del fare. Un’Europa autonoma. Un’Europa che mantenga saldi i suoi pilastri di democrazia liberale, cultura del mercato, welfare. Un’Europa che non si risparmi mai per rafforzare la nostra sicurezza industriale e la nostra competitività.
La competitività della Lombardia si riflette innanzitutto sui mercati internazionali con un valore di export pari a 163,6 miliardi di euro (2023) sui 626,2 dell’Italia, che a sua volta ha registrato un record incredibile, già da alcuni anni. Anche in questo caso l’economia lombarda fa una performance migliore di Paesi interi come Ungheria, Danimarca, Portogallo, Finlandia. I territori di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia, in tutto questo, fanno di export più del 13% a livello nazionale e più del 50% a livello regionale (82,2 miliardi di euro). Questa è una operazione che rivendichiamo di posizionamento della nostra industria per costruire un’immagine internazionale del Paese più equilibrata. Siamo convinti che dentro questi dati ci sia un nostro modello industriale fondato sulla qualità, l’innovazione, la diversificazione dei prodotti. È un modello vincente che ci dà l’autorevolezza per esprimere, oggi, la nostra preoccupazione rispetto al futuro. Il momento attuale è cruciale. Siamo all’inizio della nuova legislatura europea. E come continuiamo a ribadire da anni, dobbiamo partire dal presupposto che è l’Unione Europea il perimetro minimo di azione e ragionamento. Condividiamo la tesi sostanziale di Mario Draghi: realizzare una nuova strategia industriale che superi gli ostacoli che hanno limitato la crescita del nostro Continente negli ultimi 30 anni. Ostacoli che – a conti fatti – sono due: uno di metodo (le regole!) e uno di approccio (le ideologie!). L’effetto è certificato dai numeri: in questo secolo l’Europa perde terreno. Tutti noi perdiamo terreno. Nel 1990 l’Unione Europea, infatti, valeva oltre il 23% del PIL mondiale. Oggi è al 14%. Le istituzioni europee si sono mostrate consapevoli di questa situazione affidando - per l’appunto - a personalità come Mario Draghi ed Enrico Letta due rapporti strategici per il rilancio della competitività e il completamento del mercato unico nell’Unione. Dobbiamo però dirci la verità. C’è il forte rischio che questi buoni propositi restino solo sulla carta. Dobbiamo superare la gabbia istituzionale europea in cui ci troviamo oggi e che non ci consente di decidere. Dobbiamo superare, dunque, la regola del voto all’unanimità. Infatti, affinché si faccia una seria politica industriale, serve tanta e buona politica. In questi anni il nostro continente è arretrato davanti a una competizione globale sempre più serrata, dove oltre a Stati Uniti e Cina emergono l’India e le altre economie del Sud-Est asiatico. Dobbiamo mostrare con rapidità che in Europa siamo in grado di fare, di realizzare progetti, di investire. Anche per questo non possiamo più permetterci che il nostro continente si riduca solo a uno spazio di regole. Dal 2019 ad oggi, gli Stati Uniti hanno emanato circa 3.500 testi di legge e sono state approvate circa 2.000 risoluzioni a livello federale. Nello stesso periodo l’Unione Europea ha prodotto circa 13.000 norme. Più del doppio! Per vincere le “Olimpiadi delle leggi”, si è creata una sovrabbondanza di norme in Europa, che spesso hanno interpretazioni divergenti nei vari Stati, con conseguenti costi esorbitanti. L’ambizione deve essere un’Europa pragmatica, al servizio della crescita e non della burocrazia. Noi, imprenditori di questo Paese, lo sappiamo meglio di tutti. Il costo della burocrazia sulla nostra vita è pari a quasi 60 miliardi di euro l’anno ovvero più del 3% del PIL! Ecco, nel 2023 l’Italia ha speso l’1,5% del PIL per la difesa. Gli Stati Uniti e la Nato ci chiedono di arrivare almeno al 2% del PIL.Basterebbe, quindi, che per la difesa usassimo 1/4 dei soldi che oggi spendiamo in burocrazia e saremmo a posto! Insieme alla burocrazia, pesa su di noi moltissimo anche la pressione fiscale: è dal 2006 che registriamo una incidenza sul PIL sistematicamente superiore a quella della media dell’Unione europea. Bene il taglio strutturale del cuneo fiscale. Ma chiediamo a questo Governo, che ha ancora davanti a sé tre anni, quindi tre leggi di bilancio, di lavorare con coraggio ad un doppio percorso: il primo di spending review per quelle voci che non contribuiscono al rilancio strutturale dell’economia ed il secondo, parallelo, di riduzione della pressione fiscale.Aspettiamo l’introduzione della mini-Ires. Purtroppo, ad oggi, infatti, il principale intervento sul reddito di impresa, è stata l’abrogazione dell’ACE, che aveva aiutato le nostre aziende a patrimonializzarsi.
Ma torniamo all’Europa: al problema di metodo si aggiunge un problema di approccio. Una rigidità decisionale che non tiene conto del rischio di tagliarci fuori dalla competizione globale con le nostre stesse mani. L’Iindustria dell'auto suona una sveglia di concretezza per tutti in Europa. Pensiamo davvero di riuscire a vincere la sfida dell’elettrico davanti alla Cina? Ricordo che nel 2008 nel Vecchio Continente si produceva quasi il 31% del totale mondiale di veicoli, mentre in Cina il 13%. Nel 2023 l’Europa ha prodotto quasi il 19% di veicoli. La Cina il 32%. Su questo fronte ormai non passa settimana senza una notizia preoccupante anche dalla GERMANIA: dalla caduta delle vendite di auto elettriche, agli annunci di chiusura di fabbriche e di riduzione dei posti di lavoro, che poi toccano anche noi. Infatti, questo punto, soprattutto per noi imprenditori di questo territorio e più in generale del Nord Italia, è un serio problema. Forse il più serio! La crisi tedesca e la difficoltà della sua industria interessano a noi più di chiunque altro proprio per la posizione in catena di fornitura loro delle nostre imprese. La Germania rimane il mercato estero principale per la nostra regione – con un valore totale di 20 miliardi – ma la crisi si vede: - 1,8 miliardi di euro di vendite nel 2023. In particolare, sul dossier automotive, in tanti, inascoltati, abbiamo espresso scetticismo per le modalità imposte da Bruxelles rispetto alla fine del motore endotermico. Questa non è una “transizione”: perché sono imposti obiettivi ambiziosi, tempi non coerenti e l’uso di una sola tecnologia – l’elettrico – per cui servono materie prime e componenti che l’Europa non possiede. Su questo dossier condividiamo la linea del Governo. Facciamo un passo avanti e diciamo chiaramente una verità: la “data decisiva” del 2035 non sarà rispettata. Dobbiamo veramente colpire i posti di lavoro e il futuro delle aziende, in attesa delle prossime elezioni in Germania?
In Europa, la transizione verso l’elettrico potrebbe mettere a rischio fino a mezzo milione di posti di lavoro. Solo in Italia sono a rischio fino a 40.000 posti di lavoro in tutta la filiera al 2030 e si stima un calo di fatturato di 7 miliardi di euro per il settore della componentistica. Bisogna ammettere gli errori. Non accettiamo, però, che si dica che questo significa andare “contro l’ambiente”. L’Unione Europea non è l’inquinatore di ultima istanza del pianeta. La sola Cina produce 12,6 milioni di tonnellate di CO2, in aumento del +4% dal 2022 al 2023. L’Europa? L’Europa è responsabile della produzione di 2,5 milioni di tonnellate di CO2, in riduzione del -7% rispetto all’anno precedente. L’Unione Europea è, già oggi, uno spazio di sostenibilità. Anche quest’anno, secondo l’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite corretto per la pressione ambientale, nei primi dieci posti al mondo per sviluppo sostenibile ci sono tutte le quattro maggiori economie dell’Eurozona: Italia, Germania, Francia, Spagna. Il miglioramento delle condizioni del pianeta non si otterrà con la chiusura di impianti produttivi in Europa, e la corrispondente apertura degli stessi impianti in Cina, in India o negli Stati Uniti. Anche perché la Transizione green o la si fa con l’industria o non la si fa proprio. Continuare a ignorare i tre pilastri fondamentali della transizione - neutralità tecnologica, oggettività scientifica e gradualità - comporta con certezza il rischio di uscire dal mercato per fondamentali settori della nostra industria: non solo automotive ma – riferendomi soprattutto a questo territorio - anche metallurgia, agroalimentare, packaging, trattamento rifiuti...Senza queste industrie non potremmo raggiungere gli obiettivi di riciclo imposti dall’Europa. Obiettivi rispetto ai quali noi – più di chiunque altro – siamo all’avanguardia. Gli imprenditori di questo territorio sono veri e propri inventori, precursori di sostenibilità. Noi la sostenibilità la facciamo! Una sostenibilità ambientale certo, ma allo stesso tempo economica e sociale. Per noi la sostenibilità non è un vincolo o un obbligo di legge. È un vero e proprio vantaggio competitivo. A Milano, per esempio, la facciamo con la prima tecnologia per il recupero di qualsiasi metallo, comprese le materie rare dalle acque reflue. O ancora con la prima pompa centrifuga per convertire la plastica non riciclabile in bio-olio. A Monza e nella Brianza fino ad arrivare a Pavia la facciamo con un eccellente ecosistema di rigenerazione della natura, con ettari ed ettari di terreni recuperati alla biodiversità. E da Pavia fino a Lodi, invece, con uno dei centri più importanti nazionali per il recupero degli oli esausti e solventi. Ma ancora: è sul nostro territorio che è stato inventato ed è attivo il primo impianto di sostituzione del processo di cromatura con un rivestimento da nano-tecnologie di derivazione Aerospaziale e Formula 1 che mantiene completamente riciclabili i materiali trattati.I risultati sono concreti e sono a beneficio di tutti. L’Europa però è fortemente dipendente dalle importazioni di materie prime.
La Commissione Europea ne ha individuate 34 “critiche”. Dal nichel al silicio fino alle terre rare. Oltre un terzo di questi materiali proviene dalla Cina come principale fornitore, a prezzi che i concorrenti non riescono a sostenere. Quindi - prima di ogni altra cosa – dobbiamo ridurre il fabbisogno attraverso riciclo e circolarità che è uno dei nostri punti di forza, ma anche diversificando le forniture e aumentando, quanto possibile, la capacità produttiva europea. Ma soprattutto... bisogna investire! Apprezziamo, in questo senso, il lavoro fatto dal MIMIT con il DL Materie Prime: se non governiamo questo nodo critico, non abbiamo futuro. Ma i fondi che i singoli governi nazionali possono mettere a disposizione non bastano né basteranno rispetto alla concorrenza globale. Per affrontare le sfide delle transizioni e la competizione con Stati Uniti e Cina, serve innanzitutto un FONDO COMUNE a livello europeo e poi serve che sia all’altezza. Prendiamo il Chips Act che ha l’obiettivo di aumentare dal 10% al 20% la quota europea nella produzione globale di semiconduttori entro il 2030.
Direzione giusta. Ma l’Unione Europea dovrebbe investire oltre 260 miliardi di dollari, quasi 6 volte tanto l’ammontare che Bruxelles ha annunciato e che è in gran parte affidato alle finanze degli Stati membri. La Presidente von der Leyen ha dichiarato che nei primi 100 giorni di mandato della nuova Commissione sarà presentato il Clean Industrial Deal come parte essenziale della strategia verde dell’Europa. Ci auguriamo che sia il passaggio verso una transizione ecologica davvero industriale. In questo piano, o ci sarà un cambiamento dei progetti attuali secondo un paradigma realistico e realizzabile, oppure il rischio di deserto industriale sarà concreto. Un esempio fondamentale di questo cambio di passo necessario è il Nucleare. Il nucleare garantisce la più alta produzione energetica a fronte della minore emissione di CO2 e ci permette di ridurre l’esposizione ai rischi geopolitici. È una priorità importante per il nostro territorio: 2/3 del fabbisogno nazionale di energia viene dal Nord Italia, che può far meno affidamento su alcune fonti rinnovabili, come, per esempio, l’eolico. Apprezziamo l’impegno da parte del Governo di arrivare ad un quadro giuridico entro la fine dell’anno. E apprezziamo l’impegno del MIMIT di realizzare una newco italiana con partnership tecnologica straniera per i reattori di terza generazione. Serve però anche una precisa pianificazione finanziaria e operativa. Come sostenere questo investimento strategico per l’indipendenza energetica del Paese è un punto che va chiarito e reso pubblico. Il nucleare è una fonte imprescindibile – insieme al gas naturale, alle rinnovabili, all’idrogeno – per assicurare una equilibrata e sostenibile strategia di transizione energetica. Intanto, gli studi ci dicono che 20 impianti small modular reactor porterebbero a più di 50 miliardi di euro di PIL aggiuntivi, attivando fino a 117.000 occupati dal 2030 al 2050. Non possiamo rischiare di ritrovarci nel 2030 a vedere i risultati degli altri mentre noi stiamo ancora discutendo. In Cina poche settimane fa sono stati approvati ben 11 nuovi reattori nucleari e si stima che la loro costruzione durerà 5 anni. In un Paese europeo come la Repubblica Ceca la tecnologia per i reattori nucleari viene oggi fornita dalla Corea del Sud! E ricordiamoci che: senza energia non esiste intelligenza artificiale.
Negli ultimi mesi abbiamo visto annunci di aziende come Amazon e Microsoft che intendono utilizzare l’energia nucleare per alimentare i loro data center. Microsoft vuole puntare sull’Italia più di 4 miliardi. Questo significa che bisogna preparare una filiera di costruzioni, di infrastrutture e permessi energetici, di autorizzazioni per i data center. Gli Stati Uniti lo stanno facendo. La priorità sono le infrastrutture e le imprese, non l’iper-regolamentazione. I dati certificano un impressionante ritardo rispetto agli USA. I tre principali operatori cloud americani hanno oltre il 65% del mercato globale ma anche di quello europeo. Il più grande operatore cloud europeo rappresenta appena il 2% del mercato dell’UE. Per temi di frontiera, come le tecnologie quantistiche, le aziende europee attirano solo il 5% dei finanziamenti privati globali, contro il 50% delle aziende degli Stati Uniti. La burocrazia è un costo insopportabile per lo sviluppo tecnologico. Per le grandi imprese, per le PMI, per le startup. Per tutti coloro che, invece di innovare, devono passare il tempo a compilare moduli. Facciamo in modo che dal 2025 l’obiettivo dell’Europa e dell’Italia sia quello di ridurre le regole, e non aumentarle. E poi, se davvero vogliamo rendere l’Europa competitiva, è arrivato il momento di dirlo chiaramente: superiamo questo approccio sull’ANTITRUST, fissato su un consumatore che esiste solo nella teoria. Un antitrust che valuta le operazioni solo sulla base del mercato europeo, come se l’intero pianeta si riducesse all’Europa. Ma l’Europa è il perimetro MINIMO e non MASSIMO di azione! Se Airbus, infatti, anche proprio per la sua scala, rimane un caso di successo industriale europeo, l’approccio della Commissione ha bloccato e disincentivato le aggregazioni con spalle larghe abbastanza da affrontare la competizione globale.
I casi più importanti degli ultimi anni sono noti. L’operazione Siemens-Alstom nell’industria ferroviaria, le continue difficoltà che hanno fatto naufragare l’acquisizione dei cantieri navali francesi da parte di Fincantieri, l’operazione nel campo finanziario con Deutsche Börse e London Stock Exchange. Fino ad arrivare all’attualità con le vicende di una banca di Milano, la Unicredit, e quella di Francoforte, la Commerzbank. Dobbiamo liberarci delle diffidenze politiche interne. Non abbiamo mai considerato abbastanza quanto il fatto di non avere campioni europei avrebbe avvantaggiato di volta in volta i concorrenti cinesi o coreani, che al contrario di noi non corrono con le mani legate. E quante aggregazioni, nelle industrie a più grande intensità tecnologica, sono state disincentivate da quest’approccio così miope?
Enrico Letta ha fatto un esempio molto chiaro: l’Unione Europea comprende 27 distinti mercati nazionali delle telecomunicazioni. Un operatore europeo medio serve 5 milioni di utenti rispetto ai 107 milioni degli Stati Uniti e ai 467 milioni della Cina. Questa frammentazione ostacola la scala e la crescita degli operatori paneuropei e limita la capacità di investire, innovare e competere con le controparti globali. Nel nostro piccolo, nonostante tutto, su questo territorio ci impegniamo per dare una linea comune sui dossier d’avanguardia. Per esempio, a Pavia, dove, è nato il centro italiano per la microelettronica, ChipsIT, vigilato proprio dal MIMIT. Il nostro è un modello industriale virtuoso e vincente in Europa, fondato su un fattore imprescindibile per poter essere competitivi: gli investimenti. Rispetto al quarto trimestre 2019, quindi prima della pandemia, nel secondo trimestre di quest'anno l'Italia ha accresciuto in termini reali i suoi investimenti in macchinari e impianti del 10,1%. In Spagna sono diminuiti del 4,5%, in Francia del 4% e in Germania del 9,9%.
Anche grazie al Piano Industria 4.0, l'Italia ha portato la sua quota di investimenti in macchinari e tecnologie sul Pil dal 6,1% del 2014 al 7,2% del 2019 fino al 7,6% nel 2023. Questo è stato il vero “segreto” della nostra capacità industriale. Qualche giorno fa il Presidente del consiglio per la digitalizzazione di Francia ha detto che gli imprenditori al mondo che più di tutti l’hanno impressionato sono quelli lombardi. Un esempio: il primo e unico robot umanoide cognitivo certificato in tutta Europa per lavorare in fabbrica e sostituire i lavori più pesanti è Made in Brianza. Non possiamo fermarci ora, che è il momento di correre di più. L’Europa deve fare ancora molto per essere competitiva: i circa 800 miliardi aggiuntivi di investimenti all’anno stimati da Mario Draghi sono quasi il 5% del PIL europeo e oltre un terzo del PIL italiano. Come ha sottolineato con la consueta autorevolezza il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’Italia si presenta a quest’appuntamento come “debitore onorabile, con una storia trentennale di avanzi pubblici primari annui, con un DEBITO PUBBLICO cresciuto in larga misura, dal 1992, principalmente a causa proprio degli interessi”. Nel 2023 l’Italia ha certificato un debito accumulato di oltre 2.800 miliardi di euro. La Francia di circa 3.100 miliardi di euro. Più dell’Italia, dunque. La Germania di oltre 2.600 miliardi di euro. Poco meno di noi. Sommati, Francia e Germania valgono circa 5.700 miliardi di euro. lI doppio, dunque, dell’Italia. A fronte di questo il nostro Paese ha pagato in interessi poco meno di quanto ne abbiano pagati insieme Germania e Francia: 78,6 miliardi di euro nel 2023 contro gli 84,4 di Francia e Germania insieme. In sostanza, il nostro Paese paga oggi troppi interessi sul debito rispetto al reale livello di sostenibilità del debito stesso. Non si considerano in alcun modo i progressi fatti negli ultimi anni, in particolare dalla pandemia in poi, verso una maggiore stabilità finanziaria. Perché vi sto parlando di tutto questo? Perché la fotografia delle agenzie di rating internazionali è in parte fuorviante. Da un lato, grande generosità di giudizio nelle valutazioni verso Paesi europei che negli ultimi anni hanno aumentato in modo significativo il loro debito pubblico; dall’altro lato, grande pregiudizio nella valutazione dell’Italia come Paese a rischio elevato. Siamo nella zona più bassa insieme a Romania, Bulgaria, Ungheria, Grecia e Cipro. Se riuscissimo a far luce su altri indicatori di stabilità, oltre al parametro debito/PIL, forse riusciremmo ad ottenere un giudizio più obiettivo e a costruire un’immagine internazionale più equilibrata. Senza nascondere i nostri difetti come evasione fiscale ed economia sommersa e senza ridurre mai l’attenzione sui conti pubblici. Ma facendo una operazione di comunicazione e responsabilità collettiva per spiegare meglio che cos'è realmente il nostro Paese, la cui spina dorsale è fatta proprio delle nostre imprese. Solo la dimensione europea può restituire verità.
Nel nuovo Patto di stabilità e crescita è positiva la maggiore enfasi sulla spesa primaria netta come unico indicatore di bilancio per il monitoraggio della sostenibilità del debito di un Paese. Il Patto di stabilità avrebbe bisogno di un sistema di incentivi che premi veramente la politica da “debitore onorabile” di cui ha parlato il Presidente Mattarella. Aggiungo allora una proposta che è anche una provocazione! Seguendo il ragionamento di prima, bisognerebbe inserire una regola aggiuntiva: non appena un Paese produce un avanzo primario superiore allo 0,5% del PIL, la BCE si impegna ad acquistare e mantenere per 10 anni lo stesso equivalente in valore di titoli pubblici di quel Paese. Facciamo che anche Bruxelles e Francoforte diano il rating! Sarebbe un premio per il merito, per lo sforzo di tutti che comporta l’avanzo primario, e sarebbe un segnale della solidità della politica economica europea, per fornire uno spazio reale per investimenti non più rinviabili. Lo spazio fiscale per investire è un prerequisito fondamentale, ma non basta per realizzare i progetti. Il Patto di stabilità e crescita così come è stato chiuso non ci consentirà di sostenere gli investimenti necessari. Gli investimenti strategici per il Paese andavano, infatti, scorporati dalle regole del Patto di Stabilità. Tra questi, anche la sanità, eccellenza internazionale di questo territorio. E poi – spiace dirlo ma torniamo sempre lì - più burocrazia vuol dire meno investimenti. Qui, Ministro Urso, mi rivolgo direttamente a lei. TRANSIZIONE 5.0: obiettivi giusti e condivisibili. Modalità disincentivanti.
La misura, arrivata con troppo ritardo, non sta decollando. Secondo Ucimu, finora sono arrivate richieste per soli 70 milioni di crediti d'imposta di cui 45 milioni già fruibili ma siamo ben lontani dai 6,3 miliardi di incentivo potenzialmente utilizzabili entro la fine del prossimo anno. Il motivo lo sappiamo tutti e lo abbiamo detto in molte occasioni: la burocrazia. Tempistiche stringenti non calibrate sulla reale messa a regime degli investimenti; complessità di procedure e vincoli; incertezze tecniche. Lo sappiamo: sono risorse europee e avete negoziato a lungo con Bruxelles. Ma proprio noi abbiamo dato con Industria 4.0 un esempio virtuoso. Possibile che non si riesca a replicare un modello vincente che ha dimostrato di funzionare così bene al punto che solo noi in Europa abbiamo continuato ad investire nonostante la tempesta di crisi degli ultimi anni? Allora le chiediamo di fare una cosa semplice ma importante per la nostra base industriale. Costituire subito una task force per gestire con flessibilità le tante domande di chiarimento da parte delle imprese. E prevedere al più presto una serie di interventi di semplificazione che consentano effettivamente il decollo della misura. Partiamo dal meccanismo di prenotazione dei fondi e dalla individuazione delle finestre di ammissibilità degli investimenti. E, poi, le chiediamo di trasmettere ai suoi colleghi di Governo questo messaggio: scaricate a terra, in fretta, il PNRR, perché diventi PIL!
Concludo. Questo territorio, per crescere, per guidare l’Italia e l’Europa, ha bisogno dei GIOVANI.
In Lombardia, il rapporto tra over 65 e la fascia da 15 a 64 anni salirà dall’attuale 37% a quasi il 60% nel 2050. Non ci sono facili soluzioni per affrontare l’inverno demografico. Ma possiamo e dobbiamo fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per attingere dal bacino di giovani e – aggiungo - donne che oggi non provano neanche ad entrare nel mercato del lavoro. Il 9,1% di NEET tra i giovani (15-24 anni) e il tasso di occupazione femminile appena al 61,9% sono sprechi che non possiamo permetterci. Le imprese sono pronte a fare la loro parte, nell’offrire opportunità di crescita professionale per le donne e i giovani. L’Europa, al contempo, deve diventare un terreno fertile per la nascita di tante nuove imprese, oltre che per la crescita di quelle esistenti. Qui, ci dobbiamo impegnare affinché sempre più ragazzi scelgano Milano e il nostro territorio per formarsi e poi... per fare impresa. Allora non fermiamo, ancora una volta, proprio noi, questa potenzialità! I primi tentativi contenuti nel DDL Concorrenza sono ancora poco ambiziosi e, per certi versi, addirittura dannosi.
Chiediamo a Lei, Ministro Urso, di rivedere la barriera all’ingresso nella costituzione d’impresa che prevede - entro due anni dall’iscrizione al registro delle STARTUP innovative - di avere un capitale sociale di almeno 20.000 euro e un dipendente. Questa previsione potrebbe far saltare fino al 70% delle startup. Ho cercato di ripeterlo spesso oggi, e non mi stanco di farlo ora, nella conclusione: non abbiamo bisogno di più barriere d’ingresso, ma di meno vincoli, per liberare le nostre, le vostre energie. Eh sì, care ragazze e cari ragazzi, parlo di voi. L’impresa che è in noi vive nell’impresa che è in tutti voi. Quello che voi saprete creare è proprio quello che continuerà a dare forza a questo territorio, all’Italia e all’Europa, che – sono sicuro - continuerà a sorprenderci.
Grazie."