Rapallo, 53° convegno di Confindustria Giovani "Diritti al voto"; Di Stefano: '"Europa deve rafforzare difesa, Russia paese in cui si pratica repressione"

Il discorso del Presidente di Confindustria Giovani Imprenditori Riccardo Di Stefano in occasione del 53° convegno

Ha preso il via presso l'Excelsior Palace Hotel di Rapallo il 53esimo convegno di Confindustria Giovani imprenditori dal titolo "Diritti al voto. Volti d'Europa, sguardo sul mondo". 

A inaugurarlo il Presidente di Confindustria Giovani Imprenditori Riccardo Di Stefano, di cui di seguito si riporta il discorso integrale: 

"Autorità, relatori, illustri ospiti, Giovani Imprenditori, benvenuti al nostro 53° Convegno nazionale di Rapallo.   

Fra otto giorni saremo chiamati a votare per un’elezione di importanza estrema: l’Europa si appresta a rinnovare il proprio Parlamento e poi la Commissione.

Il 2024, infatti, è stato definito l’anno del “Superbowl della democrazia”.  Ma non è esattamente così.

È vero, 2 miliardi di persone in 76 Paesi andranno alle urne, ma almeno 28 di questi non soddisfano le condizioni per un voto democratico.  

Proprio questo 2024 ci ricorda quanto spesso il diritto di voto non corrisponda a un esercizio di libertà.

Ci spinge a riflettere su cosa muove i popoli e cosa, davvero, li rende liberi.  

Ci interroga, ancora, sul dialogo e l’equilibrio di forze da costruire con Paesi distanti dalle democrazie liberali.  

Riflessioni ineludibili, perché 5,7 miliardi di persone vivono in autocrazie elettorali o chiuse.  

Tra i Paesi in cui si è già votato ci sono il Pakistan e il Bangladesh, dove fra arresti e blocco delle comunicazioni, vanno alle urne percentuali sempre più basse di popolazione.  

A marzo si è votato in Iran. Esito scontato dentro un fronte incendiario come quello del Medio Oriente. Lì, ormai dal 7 ottobre, si consuma una tragedia che deve finire: la morte di civili palestinesi e la detenzione degli ostaggi israeliani, una ferita per tutta l’umanità.  

In Russia c’è stato il plebiscito a Vladimir Putin. Lì si pratica non solo la repressione del dissenso e il controllo dei media, ma anche l’eliminazione fisica degli oppositori.  Oppositori in tutti i settori, anche dell’economia e dell’industria.

Pensiamo poi alle elezioni in corso: in India, quasi 1 miliardo di persone sta votando da ormai 6 settimane. Quella stessa India in cui il 95% delle indagini della principale agenzia investigativa riguarda politici dell’opposizione.  

In questo quadro, però, c’è una forza che sta per muoversi.  

Sono i 400 milioni di europei che voteranno – liberamente – per il rinnovo del proprio parlamento.  

Siamo noi, tutti noi.

In un mondo dove le libertà individuali e collettive sono sempre più compresse, è cruciale riflettere sulla libertà europea.

Su come si sostanzia, davvero, il nostro essere liberi.  

Su cosa possiamo fare, concretamente, per mantenere e rafforzare queste nostre libertà.

Iniziamo.

È libero chi sceglie senza essere condizionato da una minaccia alla propria incolumità e integrità territoriale.

3 dei 27 Stati membri dell’Unione europea confinano direttamente con la Russia.  

5, se consideriamo che la Polonia e la Lituania confinano con l’exclave russa Kaliningrad.  8, se l’Ucraina, candidata all’adesione, dovesse cadere.

Quindi sì, una minaccia concreta alla nostra libertà esiste.  

La guerra in Ucraina è uno spartiacque per la storia d’Europa.  

Non eravamo pronti a questo evento, è chiaro, e fatichiamo ancora, come popoli europei, ad accettarlo.  

Molti – troppi – credono che sia possibile tornare, con un colpo di spugna, al 23 febbraio 2022.

Mettiamo, allora, alcuni punti fermi.  

Uno: quella in Ucraina è una guerra europea.

Due: abbandonare l’Ucraina non è un’opzione.

Tre: non c’è pace giusta nella resa all’aggressore!  

Usciamo subito, poi, da una ambiguità: volersi difendere non significa volere la guerra.  

Significa difendere una pace che è costata, alla nostra Europa, sacrifici indicibili.  Una pace che è il fondamento delle nostre libertà e del nostro modo di vivere.  

Il sistema di difesa europea si basa sulla NATO.  

Ma non possiamo più evitare di domandarci: perché gli americani dovrebbero difendere l’Europa se noi, per primi, non siamo disposti a farlo?  

Mentre l’ombrello della protezione americana sta per chiudersi, gli europei non sembrano consapevoli del rischio di bagnarsi.

Una sfida per l’Europa, infatti, sono anche le elezioni americane.

Il punto non è solo Trump che non vorrebbe difenderci in caso di guerra.  

Il punto è che molti americani la pensano come lui, e che gli Stati Uniti non possono più intervenire ovunque.  

Che vinca Trump o che vinca Biden.

C’è, però, una nuova libertà geostrategica che si potrebbe aprire con il disimpegno americano in Europa, ma la libertà è un esercizio di responsabilità.  

La nostra responsabilità ineludibile, oggi, è rafforzare la difesa europea. Così da rafforzare la NATO.   

La difesa è un valore collettivo, non un inutile aggravio di costi.  

L’Unione europea sta proponendo buone idee di cooperazione e coordinamento, ma non riesce a garantire finanziamenti adeguati. Due miliardi a budget fino al 2027 non saranno mai sufficienti.  

Nel 2022, gli Stati membri hanno speso, autonomamente, 240 miliardi in difesa, andati, per circa l’80% a produttori extra-Ue. Nulla di male, dirà qualcuno.  

Attenzione, diciamo noi.  

Attenzione a tamponare il problema di oggi senza risolvere quello di domani.

Perché la duplicazione delle politiche di sicurezza costa all’Europa circa 22 miliardi l’anno.

Perché all’interno dell’Unione convivono        decine di modelli              che       non       comunicano efficacemente fra loro.

Perché appaltare la difesa a un Paese terzo è un atto di dipendenza estrema.  

Chiedetelo all’Ucraina cosa significhi vivere sotto il giogo delle scelte altrui!

Significa dipendere dalle catene di approvvigionamento di altri, tanto nelle forniture quanto nei ricambi.

E le catene del valore dei prodotti dual use, civile e militare, sono fragili, contese ed esposte.  

Serve allora rafforzare l’industria europea dell’aerospazio e della difesa.  

Produzioni che per essere efficienti hanno bisogno di tempo e di economie di scala.  

Un mercato pienamente europeo è la dimensione minima per recuperare i disinvestimenti degli ultimi decenni.

Per sostenere questo sforzo, in tempi ragionevoli, l’Unione può impiegare la Banca europea per gli investimenti e altri strumenti finanziari e di debito, come per Next Generation EU.  

Il fianco Est dell’Unione, però, non è l’unico scenario per cui occorre rafforzare l’Europa.  Pensiamo al Mar Rosso e alla Missione Aspides, utile e doverosa perché difende interessi vitali.

Mentre le navi cinesi e russe continuano a circolare indisturbate, quelle “occidentali” vengono attaccate dagli Houthi, deviando fino all’80% del traffico merci. Facendo così aumentare i prezzi di tutta la filiera logistica.  

Le rotte dall’Asia all’Europa sono le più colpite.  

Sembra riduttivo parlare di economia, di prezzi, di logistica di fronte allo scenario geopolitico che abbiamo davanti.  Ma non è affatto così.

Perché solo chi ha mezzi concreti per sostenere le proprie scelte può dirsi libero.

È il portafoglio a limitare l’emancipazione prima di qualsiasi disegno politico.  E il portafoglio europeo langue.

Il bilancio europeo è lo stesso dalla fine degli anni ’80, vale circa 190 miliardi all’anno.  

Ovvero l’1% del PIL dell’Unione.  

Solo la transizione verde dovrebbe arrivare a costare 1.520 miliardi all’anno.  Ovvero il 10% del PIL europeo.

È cruciale che il bilancio europeo cresca.  

Una partita di giro di risorse già disponibili, per quanto necessaria, non è sufficiente.  Occorrono risorse nuove su base stabile.

Ma una riforma del bilancio, o qualsiasi trasferimento di potere fiscale a Bruxelles, hanno bisogno di un voto all’unanimità.  

Per non parlare dell’emissione di titoli di debito pubblico europeo.

È già difficilissimo ora, immaginate cosa potrebbe accadere dopo l’allargamento dell’Unione.  

Il processo decisionale europeo è fortemente condizionato dai veti e dal meccanismo di voto all’unanimità.  

Potrebbe arrivare alla paralisi con il prossimo allargamento.  

Questo è importante dal punto di vista politico, economico e di proiezione esterna dell’Unione. Lo sosteniamo con forza.

Purtroppo l’Europa, per come funziona oggi, non è pronta ad accoglierli.  

Per reagire alle crisi, l’Unione ha già portato al limite le sue competenze attraverso poteri d’emergenza o accordi intergovernativi.  

Molti compromessi hanno scontentato gli europei, mettendo in discussione l’idea stessa di Europa unita e i suoi valori condivisi.  

Ora è il momento di imparare la lezione e creare nuovi strumenti nel quadro stabile dell’Unione.  

Se l’Europa resta immobile, se non cambia, il crocevia fra allargamento e integrazione porterà conseguenze davvero difficili da gestire.  

Prima di ogni altra cosa, però, i popoli europei devono chiarire a sé stessi cosa vogliono da questa Europa.

Da un lato, è chiaro che ci sono materie da gestire meglio a livello nazionale.  

Dall’altro, difesa, energia, digitale, finanza, ricerca e innovazione, salute, sono tutti ambiti in cui i cittadini hanno avuto bisogno di “più Europa”.  

Per uscire dall’impasse ci sono diverse strade.  

La prima - più ambiziosa e completa - passa per una riforma dei trattati europei.  Questa è però, allo stesso tempo, la più lunga, complessa e incerta.  

Noi pensiamo che la riforma dei trattati sia l’obiettivo finale, e che a partire dalla prossima legislatura europea sia necessario aprire un grande cantiere.

Siamo consapevoli, però, che i tempi che ci troviamo a vivere richiedono soluzioni intermedie, applicabili più velocemente.  

Senza modificare i trattati, sarebbe già possibile passare a un voto a maggioranza qualificata e ripensare il sistema di rotazione del Consiglio, dare maggiori poteri al Parlamento, stabilire un limite massimo al numero dei membri e rivedere la ripartizione dei seggi.

E ancora, ridurre il numero dei commissari mantenendo, saldo il principio di rappresentanza democratica.  

La bussola del nostro ragionamento è l'efficacie dell'azione dell'unione. Perché solo chi ha davvero la possibilità di scegliere è libero di agire.

Per lavorare in questa direzione, però, c’è bisogno di un forte consenso politico da parte degli Stati, che non vediamo.

Come cittadini europei, e Giovani Imprenditori, speriamo di avere, un giorno, un sistema fiscale comune, politiche sociali ed educative comuni, una politica di difesa comune.  

È questo l’orizzonte dentro cui immaginiamo il futuro.

Ma sappiamo che sono forti e durevoli le resistenze a questo progetto.  

Sappiamo che all’Europa manca un sentimento fondativo di popolo unito.  Sappiamo che ci vorrà tempo.  

Quindi occorre trovare altre soluzioni, che per noi passano attraverso una cooperazione rafforzata tra gruppi più piccoli di Stati membri.  

C’è chi la chiama Europa a due velocità, chi Europa a più velocità.  Noi la chiamiamo “Europa della responsabilità”.  

È inaccettabile che una Unione di 27 Paesi, 500 milioni di persone e un PIL di 14.500 miliardi sia debole!  

Di fronte a queste elezioni europee, noi italiani dobbiamo chiederci:  a quale velocità vogliamo andare?  Di quale squadra vogliamo far parte?  

Di quelli che spingono sull’acceleratore e, con più integrazione, portano a casa il risultato, o di quelli che non se la sentono?  

Non vogliamo banalizzare, ma la verità è che la questione si riduce a questo: abbiamo, o meno, le spalle abbastanza larghe da sostenere il peso delle sfide politiche, economiche e di sicurezza che l’Europa deve affrontare?  

Secondo noi, da soli: no. Insieme: si!

Per questo dobbiamo unire coloro che sono disposti a sopportare il peso della Storia.  Gli altri, seguiranno.  

Difesa, energia, digitale e telecomunicazioni, capitali, giustizia, sono solo alcune delle materie in cui si potrebbe cooperare in modo rafforzato.  

E molte delle resistenze incontrate in passato, ad esempio dai Paesi del blocco dell’Est, oggi, probabilmente, non ci sarebbero più.

Sono questi i temi che andrebbero dibattuti quotidianamente in Italia. A maggior ragione alla vigilia del voto per le europee.  

Non è andata così, purtroppo.    

La campagna elettorale è stata fin qui deludente e vuota.  

Priva di contenuti, di una visione chiara sull’oggi e sul domani.  

Liste, capi-liste, campi larghi e campi stretti, equilibri di governo: questo è tutto ciò che ci hanno detto.

Basta nascondersi per non ammettere che è mancata la forza, o la capacità, di orientare le scelte europee.

Basta sbraitare contro il “vincolo esterno”.  

Basta alibi!  

Prendiamocela questa Europa!  

Agli elettori diciamo: andate diritti al voto e prendetevi le vostre responsabilità.  

Ai partiti chiediamo: avete scelto per l’Europa le persone migliori? Le idee migliori? Le proposte migliori?  

Perché solo con quelle l’Italia porterà gli altri Stati membri sulle proprie posizioni.  

Ecco perché abbiamo invitato qui tutti i principali partiti italiani.  

Fra otto giorni si vota e noi vogliamo risposte alle nostre domande.  Vogliamo un’idea chiara sul futuro dell’Europa!

Mettiamo sul tavolo la nostra.

Per noi occorre maggiore integrazione.  

Ciò che vediamo è, invece, una sorta di dilemma del prigioniero.  

Sarebbe più utile ed efficiente rafforzare la collaborazione, ma non c’è abbastanza fiducia reciproca per farlo.   

Fiducia che è alla base non solo dei rapporti fra Stati, ma anche fra cittadini e Istituzioni, fra “cosa pubblica” e “affari privati”.  

Proprio la Liguria, che ci ospita, è al centro delle cronache, da giorni.  

Come sempre la magistratura deve fare il suo lavoro e quindi non commentiamo le indagini, ma ci teniamo a dire che per noi il “modello Liguria” è quello del Ponte San Giorgio, una infrastruttura simbolo della rinascita e del coraggio di un territorio.  

Ci auguriamo, quindi, che non si blocchi il processo di infrastrutturazione della regione, fatto di opere fondamentali a beneficio della collettività.

Che fiducia possiamo avere, poi, nelle Istituzioni davanti a scene da saloon come quelle viste in Parlamento durante la discussione sul “premierato”?  

Non c’è niente di più serio delle regole che hanno impatto sul funzionamento dello Stato.  Un dibattito civile e costruttivo sarebbe il minimo.  

Ma torniamo all’Europa. Perché politiche industriali, fiscali o di difesa diventino concrete, serve crescere. Serve sicurezza economica.  

La Commissione ha lanciato una sua Strategia che può essere riassunta in due parole:  dipendenza e de-risking.

In primis dalla Cina, ma non solo. Perché le dipendenze europee sono profonde e critiche, sia verso Paesi amici che ostili.

Neanche a dirlo, le reazioni sono state le più diverse, fra approvazione, cautela o aperta ostilità.  

Comprensibile, se pensiamo che in Germania, ad esempio, un milione di posti di lavoro e un decimo delle imprese sono, direttamente o indirettamente, dipendenti dalla relazione commerciale con la Cina.

Eppure, c’è un fatto: se Winston Churchill chiamava l’Italia il “ventre molle” d’Europa, adesso è tutta l’Europa che rischia di diventare il “ventre molle” d’Occidente.

Crescere in maniera robusta, avere una politica industriale europea, aumentare il nostro budget e la capacità di investimento serve anche per negoziare, da una posizione di forza, con tutti gli attori dello scacchiere internazionale.  

Ed è fondamentale, inoltre, per esercitare un ruolo geopolitico oggi, fuori dalla portata dell’Europa.  

Soprattutto nei confronti del Mediterraneo, su cui, finalmente, si sta rivolgendo un’attenzione quantomai necessaria, anche attraverso il Piano Mattei.

A proposito di elezioni, nel 2024 voteranno anche 16 paesi africani, e la situazione non potrebbe essere più caotica.  

Per tornare a contare, tanto nei confronti del “Sud globale” quanto verso i Brics, ci vogliono soldi, e quindi ci vuole crescita. Un esempio è il Global Gateway, bellissimo progetto, ma di fatto una scatola vuota di fondi.

Il gruppo BRICS+ riunisce il 46% della popolazione mondiale sul 34% della superficie terrestre. La sua crescita economica è più che triplicata negli ultimi 30 anni – dal 9% del ‘93 al 29 del 2023.  

Nello stesso periodo la quota del G7, nel PIL reale mondiale, si è ridotta dal 68 al 44%. Le distanze, quindi, si accorciano.  

L’entrata di Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti aggiunge un importante peso economico al gruppo BRICS che ora comprende, insieme alla Russia, 4 dei maggiori esportatori di petrolio del mondo.

L’espansione di questo gruppo segnala la volontà di creare nuovi equilibri in un mondo multipolare. In questo quadro, l’indebolimento del potere economico e politico delle democrazie è estremamente preoccupante.

Misurarsi con la saldatura di questo blocco appare, dunque, necessario.  

Per farlo abbiamo una doppia responsabilità: crescere noi e diventare agenti di stabilità e di sviluppo per tutti quei Paesi, soprattutto nell’area del Mediterraneo, che rischiano di dipendere completamente da nazioni a noi molto distanti.

Questa evoluzione, e questa gestione dei rapporti commerciali con il resto del mondo, non potrà continuare a basarsi, ancora a lungo, solo sul principio di una Europa "regolatrice". Perché è impossibile rimanere un “regolatore” di riferimento, senza padroneggiare il “mercato” di riferimento.

Guardate gli Stati Uniti, guardate la Cina.  

Alla fine, per essere leader servono due cose: manifattura e supply chain.

Tutto il mondo se ne è accorto. Tutto il mondo sta rafforzando, sostenendo e aumentando la propria base industriale. Col coltello fra i denti.  Tutti, tranne l’Europa.

All’Unione serve equilibrio fra apertura, sviluppo nazionale e continentale.  

Quell'"Autonomia Strategica aperta" che è l’esatto contrario dell’autarchia.  

È invece, di nuovo, una cooperazione rafforzata con Paesi che, a livello strategico ed economico, possono aiutarci a mantenere la nostra libertà.

Rafforziamo, allora, gli accordi di libero scambio con diversi paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, con il MERCOSUR e l’ASEAN. Rafforziamo, inoltre, i rapporti bilaterali con gli Stati Uniti.

L’Europa non deve trasformarsi in una Rust Belt.

Da industriali, vogliamo una risposta chiara: il Consiglio, la Commissione, il Parlamento europeo hanno capito che è l’industria l’ago della bilancia?  

Che abbiamo bisogno di tempo, investimenti e regole adatti a padroneggiare la doppia transizione?   

L’Europa che si vuole “verde” sta facendo la transizione con i prodotti del primo Paese per emissioni al mondo, la Cina.

Cina, con cui è ormai tempo di adottare contromisure commerciali più incisive, di tipo daziario e tecnico.

L'approccio europeo alla transizione ecologica dimostra una chiara debolezza europea nell’impostare politiche e risorse per rafforzare la sua industria:  un dirigismo economico basato su sanzioni e iper-regolamentazione.

L’Europa ci ha detto che la nostra competitività sarebbe passata dalle politiche green.  

Ha fatto un all in puntando tutto su questa strategia.  

Quello che noi vediamo, invece, è l’opposto.  

Una progressiva perdita di competitività rispetto agli altri Paesi.  

Un soffocamento della manifattura europea fatto di compromessi fra visioni diverse.  Una totale assenza di lungimiranza sia economica che industriale.  

Come per l’automotive. Un settore in perfetta salute, leader mondiale.  

L’Europa lo sta distruggendo!  

Oppure l’acciaio, il cemento, i metalli non ferrosi, il vetro, la carta, la chimica, la ceramica: settori hard to abate, spina dorsale del resto della manifattura, sempre più sotto tiro dalle politiche di transizione.

Ma a Bruxelles sono andati avanti.  

Per farci ascoltare avremmo dovuto bruciare le piazze o bloccare le strade come il “movimento dei trattori”?  

NO!  

Imprenditori e lavoratori penalizzati dal Green Deal non hanno messo a ferro e fuoco le città.  

Eppure il “movimento dei trattori”, in un paio di mesi, ha ottenuto agevolazioni ed esenzioni. E l’industria e i lavoratori cosa hanno ottenuto? Solo aggiustamenti, dopo battaglie durate anni e, guarda caso, a ridosso della campagna elettorale europea.  

Forse perché non corrispondiamo alla visione romantica del green che hanno in mente in Europa. Tuttavia, milioni e milioni di persone, in tutto il mondo, mangiano i nostri prodotti e lavorano nelle nostre imprese.  

Ai nuovi Parlamento e Commissione non chiediamo meno ambizione negli obiettivi ambientali, chiediamo molto, molto più pragmatismo. Tutti i partiti affermano di voler rivedere il Green Deal. Vogliamo sapere come!

Materie prime e politica industriale sono capitoli su cui l’Europa deve cambiare marcia per recuperare competitività. E in fretta.

Un cambiamento necessario anche in ambito tecnologico.

La dipendenza tecnologicaper i software dagli Stati Uniti e per la componentistica e i chip dall’Asia è forte.

È l’innovazione tecnologica il principale campo di battaglia globale, ce lo ricorda anche Xi Jinping.

L’esempio più spettacolare e discusso è intelligenza artificiale.

Questa non è una singola tecnologia, ma una filiera digitale e industriale.   Una filiera che in Europa ha molte debolezze.

I problemi europei sono essenzialmente di tre ordini: investimenti, tempo, frammentazione.  

L’Unione, impegnata a regolamentare l’Intelligenza artificiale degli altri, non ha creato un contesto favorevole alla crescita della propria.

La piccola taglia dell’industria informatica europea, e le policy nazionali frammentate, duplicate e contradditorie ne rallentano lo sviluppo. Così come la gestione dei finanziamenti.

In Italia, a parte la doverosa riflessione etica, che cosa vogliamo essere in questa filiera?  

Produttori o moralizzatori?  

Per noi il nodo è l’utilizzo di dati per una AI a forte declinazione industriale.  

Con questi possiamo efficientare i processi e arricchire i nostri prodotti, proprio come facciamo col design.  

Anche i dati della Pubblica amministrazione sono pregiati.  

Dobbiamo quindi porci l’obiettivo di essere leader nell’utilizzo dei dati ed evitare che vengano usati da altri portando il vero valore fuori dal nostro Paese.

Anche all’Italia, allora, servono investimenti davvero significativi.  

Puntare su produzioni ad alto valore aggiunto è un passaggio cruciale che dobbiamo compiere come Sistema Paese.  

Dobbiamo farlo per restare competitivi.  

Dobbiamo farlo per creare posti di lavoro di qualità e ad alto reddito.  

Dobbiamo farlo anche per compensare un declino demografico che ci imporrà di fare di più mentre diventiamo sempre di meno.  

La sfida non è riportare indietro le produzioni a basso valore aggiunto.  La sfida è dominare quelle di frontiera.

In Europa, investiamo in Intelligenza artificiale 1 miliardo all’anno. Poco.  

Occorre un fondo europeo per raccogliere investimenti pubblici e privati.  

Uno strumento finanziario e di incontro fra produttori e utilizzatori di tecnologie, ovvero Istituzioni, grandi industrie, PMI e startup.  

Occorre creare veri campioni europei dell’AI. Imprese di grandi dimensioni e pienamente operanti in questo mercato.  

Sempre che l’antitrust europeo non le stronchi sul nascere.

L'Intelligenza Artificiale è una delle grandi battaglie del nostro tempo, perderla avrà conseguenze economiche, politiche e di sicurezza.

Le sfide sono profonde anche dal punto di vista delle competenze. Il digital divide ne rallenta non solo la produzione ma anche l’uso, mentre accelera i rischi di disoccupazione e diseguaglianze.

Per reagire, all’Europa serve tanto una formazione di scuola superiore omogenea quanto lauree compiutamente europee.

Le competenze servono anche alle Istituzioni e alle pubbliche amministrazioni.  

Una distanza troppo profonda con il privato comporterà un grave freno alla crescita, con servizi al cittadino e alle imprese sempre più inadeguati.

Dalla libertà alla crescita, dalle riforme alla tecnologia, la nostra Europa si trova a un bivio.  

E quante volte nella vita, ciascuno di noi, si è sentito a un bivio.  

A un crocevia della nostra storia in cui abbiamo provato tutto il peso delle scelte da compiere.

Intorno all’Europa, o lontano da questa, movimenti geopolitici, economici, tecnologici e naturali seminano in noi sentimenti contrastanti.  Quasi tutti ancorati alla paura.  

E, si sa, la paura provoca in ogni essere umano tre reazioni fondamentali:  lottare, fuggire o restare immobili.  

La scelta davanti a cui ci troviamo da europei è questa:

lottare per la nostra libertà, fuggire dalle responsabilità o restare immobili, sperando che la tempesta passi da sola.

Oggi vi abbiamo fatto guardare al futuro dell’Europa con i nostri occhi, quelli di chi non intende cedere alla paura.

Per noi fuggire o restare immobili non sono un’opzione.  Resta solo lottare.  

Non per difendere lo status quo, ma per ricostruire l’Europa.  

Con la più profonda fiducia nella libertà e nella democrazia andremo avanti con il nostro voto,  lotteremo con le nostre idee,  costruiremo con le nostre azioni.  

Cara Europa, sei libera, sii grande.   

Grazie "