Lo spazio cosmico è un bene comune? Il caso dei 42mila satelliti previsti in orbita da SpaceX riaccende il dibattito

L’espansione di SpaceX con migliaia di satelliti accende il dibattito sul rischio di privatizzazione dello spazio cosmico considerato "bene comune" dell’umanità. Un nodo giuridico ancora irrisolto

Lo spazio cosmico non è terra di nessuno, né terra di qualcuno. Lo sancisce chiaramente il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 firmato da 102 Stati tra cui Stati Uniti e Italia. Un accordo che stabilisce princìpi fondamentali per la convivenza pacifica tra le nazioni oltre l’atmosfera terrestre tra cui, in primis, il divieto assoluto di appropriazione, sia da parte di Stati che da attori privati. Eppure, con l’ascesa dei colossi tecnologici e il crescente ruolo delle imprese nel settore spaziale, il quadro si fa meno nitido.

In questo contesto, il progetto Starlink di SpaceX - azienda fondata da Elon Musk - rappresenta un punto di frizione emblematico. Ad oggi, sono già circa 7.000 i satelliti messi in orbita da Starlink, con una proiezione che punta a raggiungere quota 42.000. Lo scopo dichiarato è nobile: garantire connessione internet anche nelle zone più remote del pianeta. Ma la questione si sposta rapidamente su un piano giuridico e geopolitico: è legittimo che una singola entità privata occupi porzioni sempre più consistenti dell’orbita terrestre a scopi commerciali?

Un bene comune conteso

Il diritto aerospaziale è una branca relativamente giovane del diritto internazionale sviluppatasi in parallelo con le tecnologie spaziali. Alla base vi è un concetto chiave: lo spazio è un bene comune dell’umanità, inappropriabile, aperto ed accessibile a tutti. Non si tratta solo di evitare conflitti territoriali extraplanetari, ma di garantire l’equità nell’accesso alle risorse e alle opportunità che lo spazio offre.

Secondo molti studiosi, il lancio di migliaia di satelliti da parte di un solo operatore non costituirebbe formalmente una "appropriazione", dal momento che non vi è una rivendicazione esplicita di sovranità. Tuttavia, l’occupazione massiva di orbite strategiche da parte di un soggetto privato può generare forme di monopolio e limitare la libertà di accesso per altri attori inclusi Stati, enti di ricerca e aziende concorrenti.

Il paradosso Starlink

Da un lato, SpaceX presenta Starlink come un progetto orientato al bene comune, migliorando l’infrastruttura globale per l’accesso ad internet. Dall’altro, la natura privatistica e commerciale dell’iniziativa preoccupa. L’accaparramento delle orbite più redditizie, la gestione autonoma dei lanci e l’assenza di un controllo effettivo da parte delle istituzioni internazionali sollevano dubbi sulla compatibilità della iniziativa con il diritto spaziale vigente.

Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli ha espresso con forza questa preoccupazione parlando apertamente di "appropriazione privata dello spazio pubblico". Ricorda che l’art. 1 del Trattato del 1967 stabilisce che tutte le attività spaziali devono svolgersi "a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi". Eppure, il predominio crescente di satelliti Starlink smentisce questa visione universalistica creando un sistema a vantaggio esclusivo di soggetti privati.

Un quadro normativo da aggiornare?

Il nodo centrale è l’ambiguità del Trattato del 1967. Pur vietando l’appropriazione nazionale, non specifica in modo esplicito i limiti posti alle attività commerciali private nello spazio. La politica spaziale statunitense che ha autorizzato i lanci di SpaceX viene vista da molti come un via libera alla privatizzazione dello spazio.

Nel tempo, si è fatta strada l’idea che il diritto aerospaziale necessiti di una profonda revisione, capace di rispondere alle nuove sfide tecnologiche e alle pressioni economiche dei giganti del settore. La mancanza di una definizione chiara di concetti come "sfruttamento commerciale" e "uso esclusivo" rende difficile stabilire confini netti tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in più occasioni ha lanciato l’allarme contro "i nuovi neo-feudatari del terzo millennio" criticando duramente le derive privatistiche che rischiano di trasformare beni comuni - come il cyberspazio e lo spazio cosmico - in territori gestiti da pochi soggetti privati al di fuori del controllo democratico.

Un futuro ancora tutto da scrivere

La crescente presenza di attori privati nello spazio e l’assenza di un regime vincolante e aggiornato rischiano di compromettere l’equilibrio raggiunto dal diritto internazionale nella seconda metà del Novecento. La libertà di esplorazione e la non appropriazione dello spazio sono princìpi oggi messi alla prova da una evoluzione tecnologica che corre molto più veloce della normativa che dovrebbe regolarla.

Se è vero che lo spazio extra-atmosferico è un demanio universale, come previsto dal Trattato del 1967, allora è altrettanto vero che il suo utilizzo dovrebbe essere sempre condiviso, regolato e finalizzato all’interesse collettivo dell’umanità. Di fronte a progetti che trasformano orbite e frequenze in strumenti di profitto esclusivo, la comunità internazionale è chiamata ad interrogarsi e ad agire. Una revisione del diritto spaziale appare non solo auspicabile, ma ormai urgente. Solo così sarà possibile evitare che lo spazio, ultima grande frontiera dell’umanità, diventi un nuovo terreno di conquista per pochi privilegiati.

di Fulvio Pironti