Palestina, non una guerra religiosa: Dio dalla parte dell'ingiustizia o della giustizia? Clero e palestinesi tra santità e politica

La sacralizzazione del conflitto ha avuto una diffusione ancora più ampia a livello globale, in particolare attraverso quella che viene definita cristianesimo sionista, fortemente radicato negli Stati Uniti e con un’influenza diretta sulle politiche occidentali verso la Palestina

Non è mai stata la Palestina, in nessuna fase della sua storia moderna, una semplice arena di conflitto politico riducibile a mappe, accordi o equilibri di potere. A causa della complessità del conflitto, della sua durata e della sua natura coloniale, essa si è trasformata in un laboratorio morale aperto per le religioni stesse, e in uno specchio tagliente che riflette il modo in cui la fede può essere usata tanto per sacralizzare il potere quanto per metterlo in discussione. Qui la domanda non riguarda più soltanto chi possiede la terra, ma chi pretende di monopolizzare il significato, e chi osa trasformare il testo sacro in un titolo di proprietà o in una licenza aperta all’esclusione e alla violenza. Proprio per questo, la posizione religiosa sulla Palestina è diventata uno degli indicatori più rivelatori del rapporto tra religione e giustizia nell’epoca moderna.

La storia umana non manca di esempi analoghi. Negli Stati Uniti, la Bibbia è stata usata per secoli per giustificare la schiavitù degli africani: pastori e teologi scrissero che la schiavitù fosse un sistema “naturale” e “divino”, basandosi su testi mutilati dell’Antico Testamento e sulle lettere di Paolo. Questo discorso non era marginale, ma rappresentava la corrente dominante nelle chiese bianche del Sud. In Sudafrica, il regime dell’apartheid costruì la propria legittimità teologica su interpretazioni calviniste che consideravano la separazione razziale come espressione della volontà divina nell’“ordine della creazione”. In America Latina, ampi settori della Chiesa cattolica si schierarono con i regimi militari repressivi, prima che dall’interno esplodesse la teologia della liberazione, come rivolta morale che ridefinì la fede dal punto di vista delle vittime e non del potere. In tutte queste esperienze, la religione non era assente, ma fortemente presente; la domanda decisiva era sempre la stessa: da che parte sta?

La Palestina si colloca oggi al centro di questa eredità globale, ma vi aggiunge una complessità ulteriore, poiché il conflitto ha intrecciato il religioso e il politico fin dalle sue origini. Il sionismo, nato alla fine del XIX secolo come movimento nazionalista europeo di chiaro carattere laico, si trovò fin dall’inizio di fronte a un dilemma morale: come giustificare la creazione di un’entità coloniale d’insediamento su una terra abitata? La soluzione, come in altre esperienze coloniali, fu il ricorso alla religione. Così un progetto politico moderno venne sacralizzato e riformulato nel linguaggio della “promessa divina” e del “diritto storico”, trasferendo il conflitto dal campo della politica – aperto al dibattito – a quello della sacralità, protetto da ogni messa in discussione.

Nel contesto ebraico, il sionismo religioso ha svolto un ruolo centrale in questa trasformazione. Il rabbino Abraham Isaac Kook, considerato il padre spirituale di questa corrente, scrisse nelle sue lettere e nei suoi articoli che il ritorno ebraico in Palestina non fosse soltanto un progetto nazionale, ma una tappa necessaria nel percorso della redenzione divina, anche se guidato da laici. Questa idea, che inizialmente appariva come un’interpretazione teologica generale, col tempo si è trasformata in una base ideologica per giustificare la colonizzazione, l’espansione e l’imposizione dei fatti compiuti con la forza. In seguito, tali letture si sono radicalizzate nelle opere e nelle fatwa di rabbini come Dov Lior e Yitzhak Ginsburgh, che non si limitarono a concedere una legittimazione religiosa all’insediamento, ma scrissero e predicarono apertamente la liceità della violenza contro i palestinesi, distinguendo esplicitamente tra il valore della vita degli ebrei e quello dei non ebrei. Un discorso documentato nei loro libri, sermoni e dichiarazioni pubbliche, che ha suscitato persino all’interno della società israeliana un acceso dibattito sulla trasformazione della religione in un’ideologia della violenza.

Tuttavia, questo percorso non ha mai rappresentato l’ebraismo come religione o come tradizione etica unitaria. Fin da tempi precoci è emersa una corrente ebraica critica che ha messo in guardia contro il pericolo di trasformare la Torah in una giustificazione del colonialismo. Il filosofo Martin Buber scrisse nei suoi saggi sulla “terra dei due popoli” che la creazione di uno Stato ebraico con la forza e a spese di un altro popolo viola il nucleo del messaggio etico della Torah, invocando una forma di convivenza fondata sulla giustizia e non sulla sopraffazione. Il rabbino Abraham Joshua Heschel, che partecipò alle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti, affermò nelle sue opere che la preghiera che non si traduce in giustizia sociale è una preghiera vuota, e che il culto che ignora la sofferenza degli oppressi diventa una forma di blasfemia. Negli ultimi decenni, altri pensatori ebrei hanno continuato a criticare questa sacralizzazione politica del sionismo, come Marc Ellis, che nel suo lavoro sulla teologia della liberazione ebraica ha scritto che usare la memoria dell’Olocausto per giustificare l’oppressione dei palestinesi rappresenta un doppio collasso morale, perché trasforma una tragedia storica in un nuovo strumento di oppressione.

Nel contesto cristiano, la sacralizzazione del conflitto ha avuto una diffusione ancora più ampia a livello globale, in particolare attraverso quella che viene definita cristianesimo sionista, fortemente radicato negli Stati Uniti e con un’influenza diretta sulle politiche occidentali verso la Palestina. Questo movimento, fondato su letture letterali e selettive dell’Antico Testamento, ha legato il sostegno a Israele alle profezie della fine dei tempi, rendendo lo Stato israeliano un’entità sacra, sottratta a ogni valutazione etica o giuridica. Il pastore evangelico John Hagee, uno dei suoi principali esponenti, ha scritto nei suoi libri e dichiarato in numerose conferenze che sostenere Israele è un dovere religioso assoluto, affermando in interviste televisive che i cristiani devono appoggiarlo “sia che abbia ragione o torto”, perché ciò fa parte del piano divino. In questo discorso, il palestinese viene cancellato o ridotto a un dettaglio marginale di una grande narrazione cosmica in cui non c’è spazio per i diritti umani o per la giustizia.

Questo tipo di teologia, che trasforma l’occupazione in un destino divino, non differisce sostanzialmente dalla teologia della schiavitù o dell’apartheid, dove l’ingiustizia veniva normalizzata attraverso un linguaggio religioso che le conferiva un’immunità morale. Per questo molti teologi cristiani hanno messo in guardia dal fatto che il cristianesimo sionista non rappresenta semplicemente una posizione politica, ma una profonda distorsione dell’essenza del Vangelo, che nel suo fondamento si schiera con i poveri e gli emarginati, non con la giustificazione del potere.

In risposta a questa distorsione sono emerse voci cristiane che hanno ricondotto la fede alla giustizia, con la voce palestinese in prima linea. Il pastore Munther Isaac rappresenta un esempio emblematico di questa corrente, non solo come uomo di chiesa palestinese, ma come pensatore e teologo che decostruisce l’architettura morale e teologica che giustifica l’occupazione. Nei suoi scritti, interventi pubblici e interviste, Isaac afferma che il cristianesimo sionista non è soltanto una posizione politica filo-israeliana, ma un sistema ideologico che riformula l’immagine di Dio rendendolo complice dell’ingiustizia. A suo avviso, l’aspetto più pericoloso di questa corrente non è il suo impatto politico immediato, ma la sua capacità di rimodellare la coscienza religiosa di milioni di credenti, al punto che l’oppressione diventa un atto sacro e la vittima un dettaglio invisibile.

Isaac rifiuta categoricamente la neutralità morale e ribadisce nei suoi testi che il silenzio di fronte all’ingiustizia è una forma di complicità. Nella sua critica alle chiese occidentali, afferma chiaramente che il problema non è la mancanza di informazioni, ma l’assenza di coraggio morale, e che molte chiese “sanno cosa sta accadendo, ma temono il prezzo della verità”. Per lui, difendere i palestinesi non è una questione nazionalista o politica ristretta, ma un impegno evangelico autentico, perché Cristo stesso visse sotto occupazione e si schierò con i poveri e gli emarginati, non con il potere imperiale.

Questa posizione si inserisce in una più ampia tradizione cristiana palestinese, espressa chiaramente dal documento Kairos Palestina, che afferma senza ambiguità che l’occupazione è un peccato e che resistervi è un dovere di fede. Essa si incrocia anche con le posizioni di figure cristiane globali come l’arcivescovo Desmond Tutu, che paragonò ciò che avviene in Palestina al regime di apartheid in Sudafrica e affermò che una fede che non disturba l’oppressore e non difende l’oppresso non è una fede viva, ma una copertura morale per la repressione.

Nel contesto islamico, nonostante i tentativi deliberati di distorsione e riduzione, il discorso religioso generale sulla Palestina è rimasto, nella sua essenza, ancorato a un principio etico chiaro: il rifiuto dell’occupazione come ingiustizia e la difesa dei diritti del popolo palestinese come diritti umani prima ancora che religiosi. Pensatori e studiosi musulmani hanno sottolineato nei loro libri e nelle loro lezioni che il conflitto in Palestina è una lotta di liberazione contro un colonialismo di insediamento, non una guerra religiosa contro gli ebrei in quanto tali – una prospettiva che apre la strada a un’alleanza etica interreligiosa e impedisce di ridurre la questione a un discorso chiuso di odio.

In conclusione, la Palestina rivela, come hanno rivelato in passato le esperienze della schiavitù, dell’apartheid e del colonialismo in altre parti del mondo, che la religione non è neutrale per natura. O viene utilizzata per sacralizzare il potere e abbellire l’ingiustizia, oppure viene recuperata come linguaggio di resistenza morale. Tra questi due percorsi, la fede non rimane equidistante, ma si schiera, volente o nolente, con uno di essi. In questa dura prova, le voci di uomini di religione e di pensatori ebrei, cristiani e musulmani che sostengono la giustizia in Palestina restano una testimonianza viva del fatto che la fede, quando è autentica, non giustifica l’occupazione, non si nasconde dietro i testi sacri, ma affronta l’ingiustizia in nome dell’essere umano, insistendo sul fatto che non c’è sacralità in un potere senza giustizia, né senso in una religione che non si schiera dalla parte degli oppressi.

Di Issam G. Awwad