Consiglio di sicurezza Onu approva risoluzione Usa per Gaza, né pace e né giustizia per la Terrasanta, dove prevale la forza delle armi
Sono queste le premesse per un futuro di pace in Terrasanta? Ancora una volta è lecito dubitarne: la strategia che le potenze egemoni dell’Occidente perseguono è quella delle guerre senza fine, dalle quali esse, almeno fino ad ora, hanno sempre ricavato un incremento del loro potere culturale, finanziaria e politico-militare
Quanto avvenuto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 17 novembre 2025, con l’approvazione della Risoluzione n. 2803, è un evento rivelatore dell’acquiescenza della comunità internazionale al predominio della forza delle armi in Terrasanta. Risulta oramai evidente che non vi è più spazio per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, e che la violazione del diritto internazionale non trova sanzione nemmeno presso l’ONU: non una riga viene infatti dedicata in questa risoluzione alle molteplici, reiterate, permanenti violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato di Israele nella Striscia di Gaza (e non solo).
Oltre a Stati Uniti, Regno Unito, Francia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Algeria, Danimarca, Grecia, Guyana, Sud Corea, Pakistan, Panama, Sierra Leone, Slovenia, Somalia, membri non permanenti, hanno votato a favore della risoluzione.
Si sono astenuti gli altri due membri permanenti, Cina e Russia. Una decisione questa di notevole gravità, che sembra costituire il prezzo per ottenere vantaggi in altri scottanti contesti: la soluzione del conflitto in Ucraina per la Russia; un ammorbidimento delle posizioni statunitensi nel conflitto commerciale con la Cina Popolare.
Opportunismo russo
Da questo punto di vista, le preoccupazioni esternate dall’ambasciatore russo all’ONU, Vassily Nebenzia, tolgono ben poco al fatto che la Russia ha compiuto una scelta dettata da una ristretta Realpolitik, rinunciando di fatte a proprie autonome posizioni in Medio Oriente, evidentemente per concentrarsi sull’Ucraina: ulteriore conferma dopo l’abbandono di Bashir Assad in Siria.
A poco serve quindi che Nebenzia dichiari: «La cosa principale è che questo documento non dovrebbe diventare una foglia di fico per gli esperimenti sfrenati condotti dagli Stati Uniti in Israele, nei territori palestinesi occupati». La Russia sa benissimo che invece proprio di una foglia di fico si tratta.
Così per le altre “preoccupazioni” espresse dal diplomatico russo. Esse sono in realtà delle evidenze, come vedremo fra poco: nessun rispetto per i desiderata palestinesi; separazione di fatto fra Gaza e Cisgiordania, attraverso l’internazionalizzazione della prima e l’isolamento della seconda; rischio che la forza di interposizione internazionale sia coinvolta in operazioni militari che la renderebbero complice dell’esercito israeliano; che tutto questo, nelle parole appunto di Nebenzia, «ricorda le pratiche coloniali e il mandato britannico della Società delle Nazioni per la Palestina», è altrettanto evidente, per chi conosce la storia di questa regione.
L’astensione di una Russia, pienamente consapevole di tutto questo è un gravissimo errore, che certamente non giova all’immagine di difensore dei Paesi non allineati con l’Occidente che Putin ha cercato di costruire negli ultimi anni.
Silenzio complice
Partiamo intanto dal fatto che quello che si sta verificando a Gaza non è né tregua né pace: dall’inizio della cosiddetta tregua, fino al 15 novembre scorso, 242 vittime e 622 feriti, sono andati ad aggiungersi ai 69.179 morti e 170.693 feriti palestinesi, frutto della campagna di annientamento israeliana. Per tacere delle coeve operazioni militari nel sud del Libano, delle incursioni in territorio siriano, delle aggressioni dei coloni contro civili palestinesi in Cisgiordania, con relativo bilancio di vittime, feriti e imprigionati.
La Risoluzione non fa alcun cenno alle violazioni del diritto umanitario e del diritto bellico che Israele ha ripetutamente compiuto – nonostante siano in corso azioni giudiziarie a vario livello ed in varie sedi giudicanti; per non parlare delle accuse mosse a livello internazionale di condotta genocidiaria da parte israeliana.
Elementi questi tutti che non sono stati neppure accennati nella Risoluzione, in quanto gli Usa, in dipendenza dalla linea politica di Israele, ovviamente non lo avrebbero consentito. Ignorare questi fondamentali aspetti, significa quindi avallare di fatto la condotta israeliana.
Piano inclinato
La Risoluzione del resto non doveva fare altro che dare un avallo internazionale al Piano Trump dello scorso 29 settembre: ci si è quindi ben guardati dal rilevarne e tantomeno modificarne i numerosi punti oscuri, che, secondo più di un osservatore, ne dimostrano l’inattuabilità.
Non per nulla, poche ore prima del voto, il giornale britannico The Guardian aveva pubblicato delle indiscrezioni provenienti dal Pentagono, dalle quali si deduce che in realtà il piano sarebbe già considerato superato dagli stessi ambienti militari statunitensi: in luogo delle irrealistiche linee di progressiva ritirata delle forze israeliane, si pensa sul campo di seguire la falsariga di quanto già disastrosamente attuato in Iraq.
Viste le obiettive difficoltà di ottenere il disarmo di Hamas e delle altre fazioni armate ancora operative, si pensa di lasciare loro una zona rossa interamente distrutta, nella parte occidentale della Striscia: a conferma del fatto che il principale obiettivo strategico dichiarato dal governo Netanyahu, quello appunto dell’annientamento delle forze di combattimento che hanno attuato l’attacco dell’ottobre 2023, non è stato in realtà raggiunto.
Nella parte orientale della Striscia, si creerebbe invece una zona verde, confinante con lo Stato ebraico, nella quale verrebbe dislocata la International Stabilisation Force (ISF), cui fa riferimento anche la Risoluzione.
Chi va in campo?
Sempre secondo le indiscrezioni del quotidiano inglese, il Central Command USA, competente per quest’area, aveva ipotizzato di affidare a Gran Bretagna, Francia e Germania il nocciolo duro dell’ISF, una forza presunta di almeno 15mila unità: ma, a quanto pare, l’entusiasmo degli alleati a questo proposito pare sia stato scarsissimo.
Con una rilevante eccezione, udite udite: quella dell’Italia, già pronta a scendere in campo, come ventilato anche dal nostro ministro della difesa, con i soliti Carabinieri, chiamati ad addestrare le polizie locali, con i risultati di grande rilievo strategico che abbiamo già visto in Iraq e Afghanistan.
Dato che questa forza opererebbe appunto nella zona verde, confinante con lo Stato ebraico, il rischio che la ISF finisca per ottemperare ai soli desiderata israeliani è assai concreta.
Del resto la Risoluzione 2803 fa un chiaro (e inquietante) riferimento proprio a questo aspetto:
«Man mano che le Forze di Difesa Israeliane (ISF) stabiliscono controllo e stabilità, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si ritireranno dalla Striscia di Gaza in base a standard, traguardi e tempistiche legate alla smilitarizzazione, che saranno concordati tra le IDF, le ISF, i garanti e gli Stati Uniti, fatta eccezione per una presenza perimetrale di sicurezza che rimarrà fino a quando Gaza non sarà adeguatamente protetta da qualsiasi minaccia terroristica».
Di fatto si lascia quindi a Israele decidere sul quando e sul come la ISF potrà svolgere il proprio compito. E tutti abbiamo oramai imparato assai bene a conoscere la discrezionalità con cui le forze armate israeliane gestiscono gli accordi internazionali. La ISF potrebbe quindi addirittura trovarsi fra due fuochi: i guerriglieri dalla zona rossa a ovest, le forze israeliane da est – sempre che si arrivi a “liberare” davvero l’ipotetica zona verde. In ogni caso, le forze armate israeliane, grazie alla citata “presenza perimetrale di sicurezza” potrebbero tornare ad intervenire militarmente in ogni momento, a loro discrezione.
Il piano Pelzman
Quanto all’idea, anch’essa trasferita dal piano Trump nel testo della Risoluzione, di un Board of Peace (BoP), roboante denominazione dell’organismo internazionale che dovrebbe governare la Striscia di Gaza, occorre fare un passo indietro, per spiegare brevemente come si è generata questa proposta, che trova largo spazio nel Piano Trump e quindi, pari pari, nella Risoluzione 2803.
L’idea risale in realtà allo studio, denominato An Economic Plan For Rebuilding Gaza: A Bot Approach, laddove BOT è un acronimo, diffuso nel mondo del management dello sviluppo economico, che sta per build-operate-transfer (nella nostra lingua: costruire-operare-trasferire). Autore di questo studio è una singolare figura di intellettuale che opera tra Usa e Israele, quale docente di economia, affari internazionali e diritto presso la George Washington University di Washington e responsabile del Centro di Eccellenza per lo Studio Economico del Medio Oriente e del Nord Africa (CEESMENA), con sede a Gerusalemme.
Pelzman ha redatto quindi questo progetto, di natura puramente socio-economica, a suo dire, e lo ha presentato al team di Trump già nel luglio 2024. I dettagli sono poi stati resi noti per la prima volta dal dottor Kobby Barda, storico israeliano specializzato in politica e geo-strategia americana, durante una discussione con Pelzman sul podcast “America, Baby!” nell’agosto 2024. Sono stati poi pubblicati il 19 febbraio 2025 sul Global Economic Journal[1].
Distruggere tutto
Non si tratta quindi di un parto della fertile mente di Donald Trump, ma di una elaborazione di un think-tank israelo-americano. A conferma del fatto che, come ho scritto in Medio Oriente senza pace, chi detta la linea della politica mediorientale (e non solo) statunitense è oramai da decenni una classe dirigente mista (diplomatica, militare, economica, tecnologica e di intelligence) israelo-americana.
Pelzman, nel podcast di Barda, ha sostenuto pubblicamente in modo molto esplicito che a Gaza «bisogna distruggere tutto e ripartire da zero (…) ciò richiede che il luogo sia completamente svuotato. Voglio dire, proprio letteralmente svuotato, scavato completamente – tenendo presente che il cemento può essere riciclato», fornendo così una motivazione socio-economica alla distruzione sistematica attuata dai bombardamenti israeliani.
“Poi hai un’economia – ha proseguito – che in realtà ha tre settori di sviluppo: un potenziale turistico, un potenziale agricolo e poi – perché molti di loro sono intelligenti – l’alta tecnologia (…) Si tratta di un modello a settori triangolari, ma la sua attuazione richiede che l’area venga completamente liberata in modo che il calcestruzzo degli edifici distrutti possa essere riciclato, assicurando che non rimanga nulla delle costruzioni verticali che si estendono in profondità nel sottosuolo”.
Popolazione qualificata
A tutto questo ha aggiunto altri concetti assai chiari: Pelzman suggerisce infatti che gli azionisti stranieri, che investiranno in 5-10 anni investiranno tra i 1000 e i 2000 miliardi dollari per la ricostruzione di Gaza, scelgano esperti di loro gradimento per supervisionare un sistema educativo basato sulla deradicalizzazione, tale cioè da garantire che nella Striscia sia presente quella che Pelzman chiama una popolazione qualificata.
Per poter creare una popolazione di questo tipo, Pelzman suggerisce un po’ quello che gli Alleati fecero, con indubbio successo, in Germania: il cosiddetto lavaggio del carattere, eliminando qualsiasi residuo di una specifica identità culturale ritenuta pericolosa e non conforme alla visione della way of life angloamericana.
In questo caso importando programmi di studio (dall’asilo all’università) dai modelli educativi degli Emirati Arabi Uniti o dell’Arabia Saudita, sulla base delle loro recenti “riforme” e degli insegnamenti islamici sunniti e sufi: quegli stessi insegnamenti, in particolare quelli del wahabismo saudita, che hanno formato gli Osama bin Laden ed i talebani, evidentemente non tanto sgraditi all’Occidente come poteva sembrare qualche anno fa.
Questa “popolazione qualificata” sarà quindi pronta ad accogliere a braccia aperte la modalità ideale che Pelzman propone per gestire la Striscia di Gaza, una volta ridisegnata da zero: l’e-government, vale a dire un governo che fa uso estensivo di pura tecnologia digitale.
In particolare, “lo scambio di fondi tra residenti e imprese avverrà esclusivamente attraverso una rete di scambio online”, eliminando la necessità di cartamoneta, carte di credito o aiuti stranieri. La Striscia, a questo punto, non avrà bisogno di un’autorità monetaria in quanto “tutti i flussi di capitale saranno controllati da soggetti esteri”.
Quali possano essere i soggetti esteri non è difficile indovinare, soprattutto dopo la promettente intesa business fra il presidente Trump ed il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
Board of Peace?
Questa è la visione sottostante al cosiddetto Piano Trump, alla quale ora la Risoluzione 2803 spiana la via, legittimandolo formalmente. Al punto 4 della Risoluzione (i lettori ci perdoneranno la prolissità) la Risoluzione dice infatti che il Board of Peace, organismo internazionale di governo della Striscia,
«[può] istituire entità operative dotate, se necessario, di personalità giuridica internazionale e di autorità transazionali per l’esecuzione delle sue funzioni, tra cui: (1) l’attuazione di un’amministrazione di governance transitoria, compresa la supervisione e il supporto di un comitato tecnocratico palestinese apolitico di palestinesi competenti della Striscia, come sostenuto dalla Lega araba, che sarà responsabile delle operazioni quotidiane del servizio civile e dell’amministrazione di Gaza».
Al successivo punto 5 precisa «che le entità operative di cui al paragrafo 4 (…) opereranno sotto l’autorità transitoria e la supervisione del BoP e saranno finanziate attraverso contributi volontari da parte di donatori, veicoli di finanziamento del BoP e governi».
Ecco dunque all’opera un fatto apparentemente nuovo, che è in realtà un ritorno al passato: vale a dire che funzioni di carattere internazionale vengono affidate a privati. Si privatizza cioè la gestione di una entità politico-territoriale, esattamente come la Gran Bretagna del periodo coloniale faceva creando delle chartered companies, ossia delle compagnie private dotate di privilegi e poteri di amministrazione su di un territorio assoggettato: ad esempio raccogliere le tasse, esercitare il controllo tramite proprie forze armate. Cose anche queste che abbiamo già visto all’opera nella Striscia, con i contractors armati che sparavano sui Palestinesi che andavano a prendere il cibo nei punti di distribuzione…
Anche questa vecchia-nuova soluzione giuridica viene sancita da un documento delle Nazioni Unite, che in tal modo dimostrano quanto la loro origine e la loro storia siano state strumentali agli interessi delle grandi potenze imperialiste.
Quale Stato?
La domanda è a questo punto del tutto lecita, dopo quasi otto decenni di occupazione militare, dopo il fallimento degli accordi di Oslo, dopo una serie di costanti operazioni di taglio dell’erba, dopo questo ultimo conflitto, caratterizzato da un uso senza precedenti della forza militare contro una popolazione inerme, e dall’impiego della fame e della sete come armi.
Leggiamo a tale proposito il paragrafo 2 del testo della Risoluzione, nel quale si scrive che il governo del Board of Peace durerà:
«fino a quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non avrà completato in modo soddisfacente il suo programma di riforme, come delineato in diverse proposte, tra cui il piano di pace del Presidente Trump del 2020 e la proposta franco-saudita, e potrà riprendere il controllo di Gaza in modo sicuro ed efficace. Dopo che il programma di riforma dell’ANP sarà stato fedelmente portato a termine e la riqualificazione di Gaza sarà progredita, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese. Gli Stati Uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per una coesistenza pacifica e prospera».
Crediamo non servano particolari commenti a un testo, che già da solo mostra nella sua indeterminatezza quanto sia inconsistente la sbandierata assicurazione che il piano Trump contiene il riconoscimento del diritto ad uno Stato palestinese.
È qui scritto nero su bianco che la sua ipotetica nascita, in difformità rispetto a quanto previsto a suo tempo quanto meno dagli accordi di Oslo, viene subordinata al placet statunitense, a sua volta dipendente da quello israeliano: solo se si riuscirà a “rieducare” un popolo, dopo quello che esso ha subito per decenni, lo si considererà forse idoneo a disporre nella propria terra di un proprio Stato.
Si così completamente ribaltata la prospettiva storica: il sionismo, che secondo i suoi patron inglesi doveva «dare una terra senza un popolo ad un popolo senza terra», toglie ad un popolo la sua terra per darla in mano alle fantomatiche entità operative di cui parla la Risoluzione. Non si fa particolare fatica a pensare a chi possano essere, soprattutto se a guidarle saranno figure come il britannico Tony Blair.
Il conflitto non è finito
Quanto sia evidente la strumentalità di questa Risoluzione in merito al diritto all’autodeterminazione dei Palestinesi, risulta chiaro dalle prese di posizioni israeliane, basti per tutte quanto dichiarato, nelle stesse ore in cui si stava votando la Risoluzione 2803, il ministro israeliano Ben Gvir, secondo il quale «si devono ordinare uccisioni mirate dei rappresentanti principali dell’Autorità palestinese, che sono terroristi a tutti gli effetti, così come si deve ordinare l’arresto di Abu Mazen», precisando che per quest’ultimo è già stata predisposta una cella nella prigione di Ketziot.
Nello stesso tempo, nell’intento di accelerare il processo di formazione di quella popolazione qualificata prevista dal prof. Pelzman, alcune decine di Palestinesi sono stati tranquillamente deportati in Sud Africa, con un volo ad essi soli riservato.
Non può quindi meravigliare il fatto che non solamente Hamas, ma anche altri organismi non armati, espressione della popolazione palestinese, si sono già pronunciati in maniera estremamente dura contro la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Sono queste le premesse per un futuro di pace in Terrasanta? Ancora una volta è lecito dubitarne: la strategia che le potenze egemoni dell’Occidente perseguono è quella delle guerre senza fine, dalle quali esse, almeno fino ad ora, hanno sempre ricavato un incremento del loro potere culturale, finanziaria e politico-militare.
Di Gaetano Colonna
Fonte: Clarissa.it