Il genocidio di Gaza come parte di un'ingegneria culturale simbolica: quando la colonizzazione parte dalla mente, arriva al corpo e si normalizza
L’ingegneria culturale e simbolica israeliana non mira soltanto a modellare la coscienza dei palestinesi, ma a creare una comprensione globale che consenta l’accettazione dei massacri senza contestazione. In questo il linguaggio è un'arma potente perché rende ambigui, vaghi, interpretabili i concetti. Ma la cultura non è sempre passiva: può essere arma di resistenza
Nel cuore di Gaza, dove i droni e le bombe si intrecciano con il respiro quotidiano della città, si rivela una battaglia non meno feroce di quelle sul campo, ma che si decide nelle menti e nei cuori prima che sulla terra: la battaglia della coscienza. Qui, la violenza si estende oltre il corpo per invadere la memoria, la lingua, la cultura e la storia, rimodellando il significato dell’essere umano palestinese in un mondo che tenta di trasformarlo in un’immagine consumabile, analizzabile simbolicamente senza un vero scrutinio. In questo scenario, gli eventi tragici diventano assimilabili o destinati all’oblio collettivo, mentre si costruisce una rete complessa di strumenti nota come "ingegneria culturale", un processo integrato di riproduzione del potere e del controllo sulla coscienza collettiva attraverso cultura, arte, educazione, media, legge e storia.
L’ingegneria culturale non è un semplice concetto teorico; è una strategia profonda per rimodellare la mente collettiva. Secondo il sociologo francese Pierre Bourdieu, i simboli culturali non sono neutrali: sono strumenti di potere che permettono di imporre l’egemonia attraverso ciò che Bourdieu definisce "capitale simbolico". In Palestina, i simboli culturali e le esperienze umane vengono trasformati in strumenti di sottomissione, rendendo la sofferenza materiale consumabile simbolicamente e creando una narrazione globale capace di far passare i massacri senza responsabilità.
La storia è piena di esempi simili. Nell’India coloniale, la Gran Bretagna riformulò l’educazione e le arti per orientare la coscienza del popolo indiano, instillando concetti di obbedienza e sottomissione nelle generazioni successive. In Algeria, il pensatore Malek Bennabi parlò della "predisposizione alla colonizzazione", affermando che la colonizzazione inizia nella mente prima che sulla terra:
"Finché la colonizzazione non risiede nella mente, nessuna vera riforma può mettere radici nella terra".
In Sudafrica, Steve Biko sottolineò che il controllo della mente è un prerequisito per dominare la terra, come dimostrarono le politiche dell’apartheid, che miravano a distruggere l’identità culturale e psicologica della popolazione nera. Negli Stati Uniti, lo storico Howard Zinn documentò come sterminio e insediamento fossero preceduti dal racconto e dal simbolo, dove le parole venivano usate per giustificare l’espansione e cancellare le identità.
In Palestina, il progetto simbolico assume una gravità particolare: l’ingegneria culturale israeliana non mira soltanto a modellare la coscienza dei palestinesi, ma anche a creare una comprensione globale che consenta l’accettazione dei massacri senza contestazione. I media occidentali tradizionali selezionano con cura immagini e parole: "conflitto complesso", "danni collaterali", "risposta legittima", "diritto alla difesa", e soprattutto la domanda: "Condanni?". Sono tutti termini che riducono la gravità della realtà, trasformandola in eventi astratti, fluttuanti nel tempo e nello spazio. Qui emerge chiaramente la dimensione politica e giuridica: tentativi continui di giustificare i massacri a livello internazionale, sfruttare immunità, reinterpretare gradualmente il diritto internazionale per rendere i concetti vaghi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, così che l’evento appaia ambiguo e sia difficile collegarlo a una responsabilità definita. L’espressione "it’s complicated" non nasce a caso: è una copertura per nascondere i fatti e trasformare un crimine evidente in un conflitto interpretabile in molti modi, lasciando la comprensione legale e politica del cittadino comune offuscata, mentre la verità rimane intatta e non cancellabile.
In questo contesto, l’hasbarà sionista (הסברה) gioca un ruolo decisivo. È una rete complessa di istituzioni mediatiche, intellettuali ed educative che opera per modellare la percezione collettiva palestinese e globale. I suoi strumenti spaziano dai media tradizionali all’accademia, dalle arti alla cultura, fino alla diplomazia pubblica. Attraverso questa rete, la narrazione israeliana viene presentata come verità oggettiva, mentre quella palestinese viene marginalizzata o rappresentata come una minaccia costante. Finanziando ricerche accademiche, pubblicando libri e studi, elaborando programmi educativi, questa rete consolida un controllo di lungo periodo sulla narrazione, facendo apparire la versione ufficiale naturale e "neutrale" agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.
A livello psicologico, i palestinesi vivono traumi ricorrenti: perdita dei cari, espulsione dalle case, bombardamenti quotidiani. Secondo Naomi Klein in “La dottrina dello shock”, i sistemi repressivi sfruttano lo shock collettivo per orientare la percezione delle persone ed erodere il pensiero critico. Ma il dolore palestinese diventa una forza opposta, come sottolineò Viktor Frankl: la sofferenza può trasformarsi in memoria viva e in uno strumento per preservare l’identità e la capacità di agire consapevolmente. I palestinesi documentano il dolore attraverso letteratura popolare, arte, immagini e testimonianze, preservando la loro coscienza collettiva e ricostruendo l’identità comune contro i tentativi di cancellarla.
Sul piano sociale emerge la "liquidità forzata", secondo Zygmunt Bauman, dove vengono imposti perdita delle radici e instabilità al popolo palestinese, spostando tempo, spazio e narrazione in modo coercitivo. Ciononostante, nascono risposte rinnovate: madri che documentano le testimonianze dei martiri, giovani che costruiscono archivi viventi, artisti che generano nuovi simboli dalle macerie, e un linguaggio popolare che nasce dal dolore e afferma la coscienza. Questa vitalità collettiva rappresenta un’azione consapevole che a volte bilancia l’impatto della resistenza materiale contro la macchina del potere.
I fattori economici e demografici si intrecciano con l’ingegneria culturale: distruzione delle infrastrutture, disoccupazione, povertà, sfollamento delle famiglie e controllo delle risorse sono tutti strumenti per indebolire la capacità di autoformazione della coscienza e ridurre lo spazio a disposizione dell’azione culturale e sociale. Allo stesso tempo, emergono iniziative occidentali contrarie che rafforzano la capacità di memoria e consapevolezza, fornendo una rete di protezione contro l’ingegneria culturale onnipervasiva.
La dimensione tecnologica e mediatica non è solo un mezzo per diffondere informazioni, ma un campo di battaglia simbolico per la coscienza, dove la copertura continua e le piattaforme digitali indipendenti smascherano la manipolazione narrativa, riportano alla luce i fatti e impongono una visione più accurata del mondo. Le reti indipendenti occidentali che hanno preso una posizione etica non si sono limitate a riportare notizie, ma hanno costruito consapevolezza critica e funzionato come strumenti vitali di resistenza, riportando la verità alla coscienza pubblica e limitando la capacità dell’hasbarà di esercitare egemonia simbolica.
Storicamente, il controllo della mente prima della terra è stata una strategia ricorrente: i britannici in India, i francesi in Algeria, l’apartheid in Sudafrica, gli americani contro le popolazioni native. Tutti questi esempi confermano che il controllo della narrazione, dei simboli, della cultura e dell’educazione è un prerequisito per qualsiasi dominio. Oggi la Palestina affronta lo stesso modello, ma grazie all’azione collettiva consapevole, alla coscienza critica e alla documentazione digitale, i palestinesi possono affrontare questa macchina simbolica.
I palestinesi non sono semplici destinatari silenziosi: sono protagonisti della loro narrazione, custodi della memoria e portatori della coscienza collettiva. L’ingegneria culturale e l’hasbarà sionista possono essere strumenti potenti di controllo simbolico, ma non sono un destino inevitabile. L’azione collettiva consapevole, la resilienza culturale, la documentazione e l’arte sono strumenti capaci di contrastare la macchina dell’uccisione simbolica e materiale, affermando che la verità e la memoria non possono essere cancellate da nessuna forza.