“La fine di Israele”: il libro dello storico israeliano Ilan Pappé che subisce una censura di cui nessuno parla

“La fine di Israele” è un libro da leggere con atteggiamento maturo e non con le intenzioni di portare la tesi a spasso nella cronachetta. La visione di Pappé non è la profezia del mago quanto la stesura di una analisi che sta maturando in molti settori culturali

Questo articolo ce l’ho sulla punta delle dita da un po’ di giorni e siccome sono in un colpevole ritardo rispetto al tempo in cui l’avevo pensato, è ora di scriverlo. Il tempo in cui lo avevo pensato era nei giorni in cui si discuteva di censure compiute a danno di relatori che volevano parlare della situazione a Gaza e di Israele.


Il censurato che più di altri aveva fatto notizia è stato l’ex deputato del Pd Emanuele Fiano, zittito da studenti e manifestanti ProPal all’università Ca’ Foscari e indicato come bersaglio da chi con la mano mimava la P38. A Fiano, com’era giusto che fosse, è arrivata la solidarietà di moltissimi, anche la mia/nostra. L’accaduto si è trasformato in dibattito sull’antisemitismo, sull’intolleranza, sull’ignoranza e altro. Tutto molto prevedibile, onestamente. Prevedibile nella scansione temporale della discussione ma anche prevedibile nello svolgimento della “scaletta”: tutto infatti si muove e si esaurisce in una specie di palinsesto giornalistico e televisivo. Almeno fino alla successiva manifestazione con disordini annessi compiuti da chi insozza una tematica che invece avrebbe bisogno di un approfondimento serio alla luce non solo della forte ondata emotiva ma dei nuovi meccanismi politici ed economici in corso in quella parte di Medio Oriente.


Nei dibattiti televisivi si sente parlare di ondate antisemite e di antisionismo, ma quando qualcuno invita ad una messa a fuoco meno “pop” e con le lenti spesse dell’analisi storica ecco che si preferisce chiudere gli occhi. “La fine di Israele” è l’ultimo libro dello storico israeliano Ilan Pappè, un libro (edito dalla sempre coraggiosa casa Fazi Editore) che va ad aggiungere in maniera netta un tassello al percorso allestito nei precedenti testi focalizzati sulla storia della Palestina, sulla pulizia etnica del popolo palestinese e su quella che lo stesso autore ha definito la prigione più grande del mondo.


La fine di Israele” meriterebbe un confronto anche in televisione, oltre che negli spazi accademici o le aree dove vi è affinità culturali. Le ragioni del collasso del sionismo (opzione che Pappè non offre come profezia ma come possibilità di una evoluzione da Stato in crisi a Stato in dissoluzione, al pari della Iugoslazia o del Vietnam del Sud oppure di consunzione coincidente con la fine del regime come per il Sudafrica, il Cile, l’Argentina e altri) dovrebbero entrare proprio nelle discussioni più politiche perché assolverebbero al compito autentico degli accademici: allargare gli spazi dialettici con tesi di rottura, oggetto di studio e di riflessioni. La cosa, tra l’altro, farebbe bene anche a coloro che con generosità animano le manifestazioni a sostegno della Palestina ma principalmente perché spinti dall’emotività delle immagini che (per fortuna) arrivano. E servirebbero anche in quei confronti dove si censurano i Fiano perché darebbero agli stessi censurati la possibilità di confrontarsi seriamente con le opzione a loro sgradite, cioè l’esaurimento delle ragioni dello stato di Israele, senza la scorciatoia dell’etichettamento; tanto più che nelle parole di Pappé e nelle sue pagine non vi sono tare e pregiudizi.


La fine di Israele” è un libro da leggere con atteggiamento maturo e non con le intenzioni di portare la tesi a spasso nella cronachetta. La visione di Pappé non è la profezia del mago quanto la stesura di una analisi che sta maturando in molti settori culturali. È questo il tempo di parlarne, ci dice nettamente lo storico, proprio dopo il famigerato attacco di Hamas del 7 ottobre, nel senso che la precarietà di Israele come stato ebraico è evidente qui e ora. Pappé non fornisce date ultimative, ragiona sui perché la fragilità coincide con il possibile collasso, mettendo sul tavolo il rischio di violenze estreme. Nello stesso tempo va avanti nella propria (speranzosa) “visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina” (“Le utopie possono dare un orientamento”), cui l’autore arriva dopo aver isolato il virus mortale del sionismo, quello per cui lo Stato di Giudea ha inghiottito lo Stato di Israele. Quando Pappé guarda a cosa successe nel Sudafrica dell’apartheid non parla a caso: egli è convinto - da storico - che la pulizia etnica sia diventata ideologia di stato e per questo ha fallito. L’idea sionista di costruire uno stato di tipo europeo nel cuore del mondo arabo ha avuto un costo alto da pagare, tutto sulle spalle dei palestinesi considerati esseri umani inferiori.


Anche la cronaca di giornata ci conferma la sicumera dei coloni evidentemente coperti dalla destra messianica di governo. Ecco cosa riportano le agenzie: “Coloni israeliani hanno incendiato nella notte una moschea nel villaggio palestinese di Kifl Hares, vicino ad Ariel in Cisgiordania (…) L'episodio si inserisce in una scia di violenze delle ultime settimane che ha visto aumentare gli attacchi a palestinesi, incendi di veicoli e villaggi come Beit Lid e Deir Sharaf. Secondo i media israeliani, l'esercito e la polizia hanno aperto un'indagine con il coinvolgimento dello Shin Bet”.


Il conto che anche questa storia ci presenta non può essere nascosto. Gli Stati in crisi possono avere una dissoluzione che parte lentamente ma che può subire accelerazioni. Ne vogliamo parlare seriamente? (Magari sarebbe un buon tagliando anche sullo stato di salute dell’Occidente).

Di Gianluigi Paragone