Dall’Algeria del 1954 all’Assemblea di Parigi: la lunga ombra della guerra dimenticata
Sessant’anni dopo la fine del conflitto algerino, la Francia torna a interrogarsi sul proprio passato coloniale. Il voto dell’Assemblea nazionale sul trattato del 1968 riapre una ferita mai davvero chiusa.
Un impero che non voleva morire
Nel dopoguerra, la Francia usciva vittoriosa ma svuotata. L’Impero coloniale – dal Maghreb all’Indocina – scricchiolava sotto la spinta dei movimenti di liberazione nazionale. Dopo la disfatta di Dien Bien Phu nel 1954, l’Algeria divenne l’ultima trincea: non una colonia, ma tre dipartimenti francesi dove vivevano nove milioni di musulmani e un milione di europei, i pieds-noirs, padroni della terra e del potere. Dietro la facciata della “France d’outre-mer” si celava una società divisa, attraversata da disuguaglianze economiche e giuridiche che nessuna riforma riuscì a colmare.
Il fuoco sotto la cenere: Setif e la memoria del sangue
L’8 maggio 1945, mentre in Europa si festeggiava la fine della guerra, in Algeria esplodeva la rabbia. Le manifestazioni di Setif, Guelma e Kherrata per chiedere uguaglianza e autonomia furono represse nel sangue: migliaia di morti, villaggi bombardati, civili fucilati. Quel massacro segnò la fine dell’illusione assimilazionista e il punto di non ritorno per molti giovani nazionalisti. Nacque allora la convinzione che solo la lotta armata potesse liberare il Paese. La guerra del 1954 non nacque improvvisa: covava da anni sotto le macerie morali della repressione.
Dal FLN alla disfatta francese
Il 1° novembre 1954, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) avviò la rivolta con una serie di attentati coordinati. Parigi rispose con un’imponente operazione militare: oltre 400.000 soldati, molti reduci dell’Indocina, furono inviati nel Maghreb. La Francia impiegò armi, intelligence e tortura, ma non riuscì mai a vincere “i cuori e le menti”. La battaglia di Algeri del 1957, vinta militarmente, fu una sconfitta morale: il mondo scoprì le pratiche repressive di un Paese che si proclamava culla dei diritti umani. Quando de Gaulle comprese che l’Algeria era perduta, iniziò la via della negoziazione. Gli Accordi di Evian del 1962 sancirono l’indipendenza, ma lasciarono dietro di sé un milione di profughi europei e un trauma collettivo che ancora pesa sulla coscienza francese.
L’accordo del 1968: pragmatismo dopo la tempesta
La decolonizzazione non chiuse i conti: li trasformò. Nel 1968, Parigi e Algeri firmarono un accordo bilaterale per regolare ingresso, lavoro e soggiorno dei cittadini algerini in Francia. Era un patto pragmatico: riconoscere la realtà dei legami umani ed economici tra le due sponde del Mediterraneo. Nel tempo, quell’accordo ha consentito a milioni di algerini di stabilizzarsi legalmente, ma ha anche creato un regime giuridico speciale, distinto da quello applicato agli altri stranieri. Oggi, in un contesto di pressioni migratorie e tensioni identitarie, quel “binario privilegiato” è diventato bersaglio politico.
Parigi 2025: la guerra dei simboli
Il 31 ottobre scorso, l’Assemblea nazionale ha approvato – per un solo voto di scarto – una risoluzione del Rassemblement National per denunciare l’accordo del 1968. Il testo è simbolico, ma il segnale è potente: la Francia post-coloniale torna a fare i conti con se stessa. Per Marine Le Pen, si tratta di una “vittoria storica”, un passo verso la “fine dei privilegi algerini”. Per la sinistra e i macroniani assenti, è un “errore strategico e morale”. Dietro il linguaggio parlamentare si cela un conflitto di memorie: tra chi vede l’Algeria come una ferita mai rimarginata e chi la considera un capitolo chiuso della storia.
La geopolitica della memoria
La crisi diplomatica esplosa nel 2024, dopo il sostegno francese al Marocco sul Sahara Occidentale, ha riacceso vecchie diffidenze. La riduzione del personale consolare, il gelo tra Élysée e Algeri, e la retorica dei “tradimenti” mostrano quanto il passato continui a orientare la politica mediterranea. La memoria coloniale non è solo un tema storico: è una variabile strategica nei rapporti tra Parigi e i partner del Nord Africa, terreno dove si intrecciano sicurezza, energia e migrazioni.
Oltre la nostalgia e il rancore
Sessant’anni dopo l’indipendenza algerina, la Francia deve scegliere se restare prigioniera delle sue memorie o usarle per costruire una politica mediterranea realista e lungimirante. Il dialogo tra la Grande Moschea di Parigi e l’arcidiocesi di Algeri, e le parole del cardinale Jean-Paul Vesco, ricordano che “riconciliazione non significa dimenticare, ma non esserne schiavi”. In un mondo instabile, dove il Mediterraneo torna a essere frontiera strategica, Francia e Algeria non possono permettersi un nuovo muro psicologico. Perché ogni crisi diplomatica, come nel 1954, inizia sempre nello stesso modo: quando si smette di ascoltare l’altro.