Il genocidio come specchio, da Colombo a Gaza, da Kitchener a Ben Gurion: quando l'Occidente rivede sé stesso nel volto del carnefice

Da Colombo a Ben Gurion, da Locke a Herzl, dalle scuole missionarie ai jet F-16, al genocidio di Gaza. Cambiano solo gli strumenti, il significato resta lo stesso: l’altro deve essere cancellato perché nasca il "mondo migliore". La modernità non fu salvezza, ma riformulazione dell'assassinio di massa

Fin da quando Colombo alzò la sua prima vela sull’oceano, non navigava tanto verso un nuovo continente, quanto verso la nascita di una nuova idea di violenza. La "scoperta" fu soltanto un velo linguistico che copriva la nascita della forma più organizzata di sterminio, quella esercitata in nome della luce e della civiltà. L’uomo entrò nella storia non come “scopritore”, ma come il primo a inventare il significato moderno della parola "purificazione". Da quel momento, la terra non fu più "terra", ma "vuoto" in attesa di chi le desse un senso; e l’uomo non fu più "uomo", ma "ostacolo" di fronte al sogno bianco.

Questo è il primo rigo del racconto dell’Occidente su se stesso: un racconto che è durato secoli, trasformandosi in filosofia, poi in politica, poi in eserciti. Attraverso questa lunga catena di giustificazioni, l’uccisione degli indigeni divenne un atto morale, e la colonizzazione un’opera di salvezza. Il colonialismo non aveva bisogno di una brutalità esplicita, ma di una logica capace di giustificare la brutalità con un linguaggio calmo.

Nel XVII secolo, il filosofo John Locke – uno dei padri del liberalismo – scrisse che la terra non coltivata “non appartiene a nessuno”, e che chi la lavora “acquisisce un diritto naturale su di essa”. Quella frase, apparentemente innocente, fu la chiave che aprì le porte del Nuovo Mondo a fiumi di sangue. L’idea divenne legge, la legge divenne politica, e la politica divenne cannone. Lo sterminio delle tribù native in America non fu privo di pensiero, ma l’applicazione letterale di una teoria della proprietà che giustificava l’espropriazione di chi “non conosceva il valore della terra”.

Da Jules Ferry a Kitchener fino a Ben Gurion, la stessa frase fu ripetuta in mille versioni: "È dovere delle nazioni civili civilizzare i popoli arretrati”. Nel XX secolo, Ben Gurion disse in ebraico ciò che Ferry aveva detto in francese: "Siamo venuti in una terra desolata per farla rinascere". Tra le due frasi corrono cento anni, ma un’unica anima lega i due crimini.

La storia dell’Occidente non procede in linea retta, ma in un cerchio di ripetizioni. L’Olocausto in Palestina non è una deviazione dalla regola, ma un suo ritorno. Ciò che accadde nel 1948 non fu una "Nakba" passeggera, ma un anello di una catena iniziata in America secoli prima, quando l’europeo decise che la terra che non parlava la sua lingua non meritava di vivere.

Lo storico australiano Patrick Wolfe scrive che "il colonialismo di insediamento è una struttura, non un evento; la sua logica è quella dell’eliminazione". Questa frase spiega tutto ciò che è avvenuto nella storia moderna, dal Canada alla Palestina. In Canada, i bambini furono strappati con la forza alle famiglie per essere educati in scuole dove le loro lingue e i loro nomi venivano cancellati. In Australia, i piccoli venivano sottratti alle madri per essere allevati dallo Stato bianco "a sua immagine". Oggi, quando Israele arresta i bambini di Gerusalemme definendoli "bisognosi di riabilitazione", ripete la stessa scena, ma nel linguaggio del XXI secolo.

Come afferma il ricercatore Raz Segal, Israele non è un’eccezione, ma "l’erede della struttura genocidaria occidentale". È l’incarnazione più recente della mentalità che fondò il Nuovo Mondo sulle rovine dei suoi popoli e costruì gli Stati moderni su un lungo sterminio chiamato "civilizzazione". È il progetto occidentale rinato nella lingua dell’ebraico contemporaneo.

Il colonialismo, come scrive Mohamed Adhikari, non uccide per odio ma per necessità: il colono può vivere solo negando l’altro. La sua esistenza si fonda sull’eliminazione. Nella logica coloniale, due vite non possono coesistere sulla stessa terra: o tu, o lui. Questa equazione non è cambiata dal New England al Negev, dalle piantagioni della Virginia alle tende di Gaza. Quando il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant definì i palestinesi "animali umani", non inventava un nuovo linguaggio: ripeteva alla lettera il discorso del lord Kitchener in Africa, quando descriveva i popoli nativi come "razze inferiori da raddrizzare con la forza". Questa continuità non è casuale: è la più autentica espressione della struttura morale dell’Occidente — una violenza che si crede etica.

Il più grande successo dell’Occidente fu trasformare il genocidio in un dovere morale. A un certo punto, i massacri cessarono di essere violazioni della legge per diventare la sua più rigida applicazione. L’idea di "liberazione" divenne giustificazione per l’uccisione, e quella di "civilizzazione" copertura per la pulizia etnica. Così comprendiamo come il mondo occidentale possa giustificare il bombardamento degli ospedali di Gaza in nome del "diritto alla difesa". Una coscienza abituata a uccidere nel nome del bene non esita a ripetere il gesto nel nome della sicurezza.

Lo storico palestinese Nur Masalha scrive che "la coscienza occidentale non trema davanti alle immagini di Gaza, perché ha già visto la stessa scena nel Nuovo Mondo". Ecco il segreto del silenzio occidentale: non è neutralità, ma paura del riconoscimento. Condannare Israele significherebbe condannare se stessi. Come può l’Occidente accusare sé stesso? Come può ammettere che il genocidio non è un’eccezione ma un fondamento della sua identità?

Israele non è estranea a questo contesto, ne è la prosecuzione più limpida. Non è uno Stato che si rifugia nell’Occidente, ma uno Stato che lo protegge dal guardare il proprio passato. Riconoscere i suoi crimini significherebbe ammettere che la modernità non fu la salvezza dell’umanità, ma una riformulazione più elegante dell’assassinio di massa. Per questo l’Occidente resta rigido, giustifica, mente e manovra: sa che la Palestina è il suo ultimo specchio morale, e che guardandola vede il proprio volto antico negli occhi del carnefice.

Da Colombo a Ben Gurion, da Locke a Herzl, dalle scuole missionarie ai jet F-16, cambiano solo gli strumenti; il significato resta lo stesso: l’altro deve essere cancellato perché nasca il "mondo migliore". Ciò che Israele chiama "autodifesa" è solo il nome moderno di ciò che Colombo chiamava "diffondere la luce". È la stessa frase, in un’altra lingua. Nel cuore di questa contraddizione si rivela la tragedia del mondo moderno: l’Illuminismo che prometteva la salvezza si è trasformato nel velo del genocidio. Il pensiero che generò la filosofia dei diritti è lo stesso che produsse i campi di concentramento. La filosofia che annunciava la libertà generò l’imperialismo. La modernità che pretendeva di salvare l’uomo lo ha reso strumento di sterminio.

Quando Gaza viene bombardata, non si ripete un crimine isolato, ma si rievoca la scena inaugurale su cui l’Occidente ha costruito se stesso: il fuoco sulla terra abitata dall’altro. E la parte più crudele è che la vittima, come disse Edward Said, "è costretta sempre a spiegare la propria umanità". Il palestinese non chiede giustizia, ma il diritto di essere visto come uomo, in un mondo che ha smesso di vedere l’uomo se non quando è bianco o parla la sua lingua.

Quando i quartieri di Gaza vengono rasi al suolo, l’Occidente tace perché riconosce nel fumo quello delle sue vecchie colonie. Conosce quell’odore, lo conosce bene. Per questo tace: non perché non senta, ma perché ricorda. Condannare Israele significherebbe condannare sé stesso. E poiché l’uomo occidentale non vuole rivedersi come assassino, preferisce giustificare. Ma la Palestina, nonostante tutto, rifiuta di essere uno specchio muto. Ogni villaggio distrutto, ogni pietra segnata dalla cenere, ogni nome riscritto in ebraico sui cartelli è una testimonianza contro l’oblio. È la memoria che nessun aereo è riuscito a cancellare. Ciò che rende la Palestina diversa da tutte le colonie della storia è che la sua terra continua a parlare.

La difesa occidentale di Israele non è solo un allineamento politico, ma la difesa della propria grande narrazione: che la violenza bianca sia sempre stata una violenza "per il bene". Ma ogni volta che un bambino cade a Gaza, questa narrazione si incrina, e si rivela la menzogna su cui fu costruito un intero continente.

Ora, più di cinque secoli dopo il primo genocidio dell’era moderna, l’Occidente sembra camminare ancora nella stessa direzione, con gli stessi slogan, la stessa lingua, la stessa illusione. Nulla è cambiato, se non la vittima; l’autore è rimasto lo stesso. E alla fine, come scrisse Ilan Pappé: "La Nakba non è un evento del passato, ma un processo in corso". Così anche il genocidio occidentale non è memoria ma struttura: vive in ogni discorso che giustifica l’uccisione in nome dei valori, in ogni giornale che equipara carnefice e vittima, in ogni politico che definisce la morte dei bambini di Gaza come "errore tragico".

La storia del mondo moderno è la storia della capacità di giustificare il crimine. Ma la Palestina oggi resta l’ultimo muro morale contro questa giustificazione. È la testimone che dimostra che la civiltà non è ancora purificata dal suo peccato, e che la luce di cui parlava Colombo brucia ancora più di quanto illumini. 

Quando l’Occidente guarda Gaza, non vede una guerra: vede la propria immagine antica. E quando difende Israele, in realtà difende il proprio passato. Ma lo specchio non perdona: nel volto del bambino palestinese che stringe una pietra tra le rovine della sua casa, il mondo vede la propria immagine, e scopre che tutto ciò che ha costruito sui cadaveri degli altri stava crollando silenziosamente fin dall’inizio.

"Ogni volta che Gaza brucia, si accende la memoria del mondo; e ogni volta che l’Occidente tace, parla la Storia".

Issam Ghaleb Awwad è uno scrittore palestinese, traduttore dall'ebraico all'arabo, all'inglese e all'italiano per i media israeliani. È anche formatore in materia di educazione degli adulti, e consulente per l'Università Dar al-Kalima su questioni relative all'educazione degli adulti. Dirige inoltre un centro di riabilitazione e sviluppo delle capacità, affiliato alla Mezzaluna Rossa Palestinese.