Donald balla, il mondo trema: deliri diplomatici a ritmo di pop in un’Asia che non perdona
Tra valzer geopolitici e selfie virali, il Tycoon riscopre il potere primordiale della danza. E noi con lui, sudati e confusi
Appena sceso dall’aereo presidenziale, The Beast del capitalismo ha colpito ancora. Donald — l’uomo, il mito, il parrucchino atomico — ha cominciato a muovere il bacino sotto il sole umido di Kuala Lumpur. Le autorità malesi, pietrificate tra protocollo e perplessità, battevano le mani come scolari in punizione. Io sudavo nel mio completo di lino, guardando il leader del mondo libero sculettare come un Elvis radioattivo.
Non era solo un ballo. Era un manifesto politico in 4/4. Mentre i think tank parlano di equilibri ASEAN e di vertici APEC come fossero oracoli del destino, Donaldone sceglie la via del groove. Una diplomazia ritmica. Una dichiarazione di guerra al grigiore ministeriale.
Quel passo incerto, quella piroetta sgraziata: pura energia preistorica, l’America che torna a danzare sulla tomba del politically correct.
Mi torna in mente Gerald Ford che invitava la Regina Elisabetta a un valzer regale nel ’67, mentre la band suonava “The Lady is a Trump” (lapsus freudiano che oggi suonerebbe come profezia). Poi Bush, in Africa, a vibrare in trance tribale contro la malaria; Colin Powell a Londra, scatenato su Yahooze come un diplomatico in discoteca; Obama con Michelle — eleganza e ritmo perfetti — e Theresa May, rigida come un bastone da golf che tenta di muoversi a tempo.
E noi italiani? Abbiamo il nostro pantheon di balli mancati e di cringe patriottico: Elly Schlein che rappa con gli Articolo 31, la stessa Schlein che saltella al Pride con Alessandro Zan, Salvini che agita il microfono al Papete come fosse un testimone di nozze.
Eppure, dietro il ridicolo, si nasconde una verità dolorosa: la paura di mostrarsi umani. Perché nel Belpaese, se un politico prova a ballare, scatta subito la gogna dei moralisti col nodo alla cravatta. Troppo composto per divertirsi, troppo serio per sembrare vivo.
E così, tra un editoriale indignato e un talk show moralizzatore, continuiamo a fingere che la fermezza di governo si misuri in rigidità lombare.
La verità? Il ballo è potere. È rito. È sudore e comunicazione primordiale. Se non puoi danzare, non è la tua rivoluzione — e forse nemmeno la tua politica.