Trump e Putin a Budapest, un incontro che stavolta può essere quello buono; se l’Europa non si mette di traverso

Ora all’Europa resta la scelta: andare avanti nella corsa agli armamenti per combattere la sua guerra santa e giusta o prendere atto che Trump sbianchetterà le colpe di Putin, rivedrà il ruolo della Nato in Europa e sacrificherà l’Ucraina perché l’avversario cinese è più importante di Kiev

Sarebbe facile, come del resto scrivono e sostengono in parecchi, ridurne la strategia alla follia o qualcosa di simile. Trump ha una sua ideologia che segue come stella polare: il business. Lo fa in maniera sfacciata che è difficile dissimulare, come dimostrano il suo discorso al parlamento israeliano, e la scelta criticata ma azzeccata dei due mediatori Witkoff e Kushner dal profilo decisamente più imprenditoriale che politico (ma forse persino Kissinger avrebbe apprezzato). E forse va persino bene così, perché in fin dei conti la rotta invisibile degli affari ha sempre condizionato e indirizzato i dossier delle relazioni internazionali. Oggi geopolitica e geobusiness sono gli assi cartesiani espliciti del nuovo ordine mondiale. Lo abbiamo visto anche nella costruzione dello stop al conflitto nella Striscia (ci torneremo).

Seguendo questa stella polare Trump è tornato nell’emisfero europeo per occuparsi del conflitto in Ucraina nella speranza di bissare la fortunata traiettoria mediorientale. Così ha parlato telefonicamente con Putin, il quale non aveva perso tempo a complimentarsi per il successo a Gaza. Sembrava che dopo il vertice in Alaska nulla fosse rimasto in terra ma evidentemente ci sfugge parecchio di quel che si dissero a ferragosto. Io penso che quell’incontro - sempre tanto criticato dal mainstream - avesse bisogno di tempo per sedimentare ed essere lavorato. È vero che nei giorni successivi Putin ha ordinato un incremento di azioni militari ma è altresì vero che se c’è una guerra in corso le battaglie continuano (nessuno sentì dire che ci sarebbe stata una sospensione dei raid) e si intensificano per centrare obiettivi sia di posizionamento sia di contenimento. Non si può certamente dire, infatti, che l’Ucraina sia rimasta a guardare, anzi - con l’aiuto degli americani e della Nato - le insegne di Kiev hanno centrato pezzi importanti delle articolate infrastrutture energetiche russe; inoltre sono stati commessi non pochi pasticci con droni che partivano di qua e di là combinando guai frettolosamente accreditati alle responsabilità russe. La propaganda è un arnese nelle mani di ambo le parti.

Non so se oggi Putin sia più debole rispetto al 15 di agosto (dubito), ma nemmeno è così importante stabilirlo: la Russia resta una potenza nucleare e politica come abbiamo verbalizzato nelle parate organizzate dalla Cina per rinvigorire l’organizzazione di Shangai. Inoltre la Russia è un serbatoio di materie prime fondamentali nell’industria moderna: ne ha tante esplorate ma ne ha ancor più da esplorare, specie se pensiamo alla calotta artica.

Trump ha fretta di chiudere rapporti di business con la Russia perché la guerra americana è una guerra che non si combatte (ancora) nelle trincee militari ma in quelle commerciali. È la guerra con la Cina: Trump e Xi Jinping stanno ingaggiando un braccio di ferro le cui vibrazioni sono pesantemente avvertite sui mercati finanziari. Trump ha bisogno di Putin, certo; di un bisogno non indispensabile ma assolutamente utile per avere quel che la Russia ha in termini di materie prime e in termini di nuove rotte (provate a immaginare lo scongelamento di quello sputo di terra ghiacciata che lassù in alto ancora separa Russia e America). Non so se sia vero ma diciamo che è verosimile: Trump vorrebbe anche che la Exxon rientrasse nel club degli alleati di Rosnef e di Gazprom per bruciare tutti sul tempo. Player europei in testa.

Putin anche ha bisogno di Trump, dello stesso bisogno non indispensabile ma utile: che senso ha ingaggiare una guerra di Identità e poi accucciarsi sotto il Dragone cinese, come un qualsiasi junior partner. Trump è un americano che tratta: ha trattato con l’intero mondo arabo per costruire la stabilità nell’area mediorientale anche a costo di sottovalutare il demone del terrorismo jihadista; tratta con la Turchia anche a costo di indispettire Netanyahu (perché ora sarà la Turchia il pensiero che non farà dormire gli israeliani…) e ha bisogno di quei paesi apparentemente distanti (Siria, Pakistan e altri) per irrobustire la sua rete nell’intera regione che contrasti le nuove Vie della Seta di Xi Jinping. È una scommessa non priva di insidie (tanto valeva che l’Italia restasse nel solco delle sue storiche relazioni con il mondo arabo).

Trump vuole ricostruire i rapporti con la Russia e anche con l’India (i cui dazi erano arrivati per l’acquisto di petrolio russo) nell’ottica di un nuovo ordine mondiale stabile e senza smottamenti, cioé senza guerre. Perché - pensa Trump - le guerre nuocciono agli affari. Ora all’Europa resta la scelta: andare avanti nella corsa agli armamenti per combattere la sua guerra santa e giusta o prendere atto che Trump sbianchetterà le colpe di Putin, rivedrà il ruolo della Nato in Europa e sacrificherà l’Ucraina perché l’avversario cinese è più importante di Kiev.

di Gianluigi Paragone