Maria Corina Machado, quando la Pace diventa un pretesto per la guerra, il Nobel diventa un’arma: darle il premio è un atto politico che segue diktat Usa
Machado è l’antitesi stessa della pace. È la rappresentante di una visione politica fondata sulla sottomissione al capitale finanziario angloamericano, sull’interventismo, sulla destabilizzazione di uno Stato sovrano. Assegnarle il Nobel è un atto politico deliberato, un’arma ideologica puntata contro il Venezuela, colpevole di non essersi inginocchiato davanti ai diktat dell’impero
Nel “mondo realmente rovesciato” che Guy Debord aveva lucidamente e profeticamente descritto quasi sessant’anni fa, nulla sorprende più. Nemmeno che il Premio Nobel per la Pace venga assegnato a chi incarna la guerra sotto mentite spoglie.
Istituito nel 1895 su disposizione testamentaria di Alfred Nobel, il premio avrebbe dovuto onorare “la persona che avrà fatto di più per favorire la fratellanza tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e per la promozione di congressi di pace”. Un ideale limpido, presto trasformato in strumento geopolitico.
Negli ultimi decenni, il Nobel per la Pace è stato più volte piegato agli interessi angloamericani, premiando non i costruttori di pace ma i suoi demolitori: Henry Kissinger nel 1973 — il teorico del bombardamento “umanitario” in Indocina — o Barack Obama nel 2009, celebrato preventivamente mentre si preparava a scatenare più guerre dei suoi predecessori.
Con il Nobel per la Pace 2025 a Maria Corina Machado, però, il paradosso tocca l’apice. Machado è l’antitesi stessa della pace. È la rappresentante di una visione politica fondata sulla sottomissione al capitale finanziario angloamericano, sull’interventismo, sulla destabilizzazione di uno Stato sovrano. È la versione femminile e tropicale di Juan Guaidó: la “resistenza” confezionata nei laboratori di Washington. Assegnarle il Nobel è un atto politico deliberato, un’arma ideologica puntata contro il Venezuela, colpevole di non essersi inginocchiato davanti ai diktat dell’impero.
La stampa occidentale, come da copione, la descrive come “leader dell’opposizione democratica” che sfida la “dittatura” di Maduro. Il Comitato norvegese ha motivato la scelta parlando di “difesa coraggiosa dei principi democratici e dei diritti umani in un contesto di repressione”.
Immediatamente, Roberto Saviano ha celebrato Machado come “una luce nel pozzo nero di Caracas”. Sarebbe davvero bello e interessante ascoltare parole altrettanto vibranti pronunciate dal sempre attento e integerrimo Saviano nei confronti del genocidio israeliano a Gaza. Ma, come diceva Eduardo Galeano, “quando è la verità a essere scomoda, il silenzio diventa una virtù occidentale”.
Al di là dell’agiigrafia con cui i media occidentali e i saviano di turno la dipingono, dietro la patina mediatica della “paladina dei diritti umani”,si cela l’erede di una delle più potenti famiglie venezuelane. Suo padre era a capo della compagnia elettrica Electricidad de Caracas e del colosso siderurgico Sivensa, entrambe nazionalizzate nel 2010 da Hugo Chávez. Maria Machado fa parte di quell’élite economica legata e compromessa con gli Stati Uniti che con la rivoluzione di Chavez ha perso i suoi privilegi e ha giurato vendetta.
Non stupisce che nel 2002 sia stata tra i firmatari del decreto Carmona, con cui un manipolo di imprenditori e ufficiali destituì il legittimo presidente Chávez sciogliendo l’Assemblea Nazionale. Il golpe durò 48 ore, il tempo necessario al popolo per riportare Chávez a Miraflores. Da allora, Machado è diventata la voce più rumorosa della destra venezuelana, sostenuta e finanziata da Washington.
La sua ONG Súmate, creata con fondi della NED (National Endowment for Democracy) — una delle più note coperture della CIA — ha condotto campagne di delegittimazione del governo e promosso il caos nelle strade. È stata tra le registe del piano golpista La Salida, costato la vita a 43 persone, molte delle quali colpite alla testa mentre cercavano di rimuovere le barricate dei guarimberos.
Nel 2018 ha scritto a Benjamin Netanyahu e Mauricio Macri invocando un intervento “credibile, grave e imminente” per “smantellare il regime criminale di Maduro”. Ha invocato la dottrina della “Responsabilità di Proteggere” (R2P), lo stesso pretesto giuridico usato per distruggere Libia e Iraq.
Le sue richieste di sanzioni hanno provocato danni per 642 miliardi di dollari tra il 2015 e il 2022, paralizzando l’industria petrolifera e impedendo l’importazione di medicinali. Ha applaudito al sequestro di CITGO (32,5 miliardi di dollari) e al congelamento di 31 tonnellate d’oro venezuelano custodite alla Banca d’Inghilterra. Ha sostenuto il blocco di 4 miliardi di dollari di fondi statali e festeggiato il saccheggio della società colombo-venezuelana Monómeros. Eppure, nel mondo rovesciato del capitale globale, tutto ciò vale un Nobel per la “pace”.
Il programma politico di Machado è un inno al neoliberismo estremo: “Dobbiamo privatizzare la PDVSA, le industrie di base, le telecomunicazioni, gli hotel.” Tradotto: consegnare il petrolio venezuelano e tutte le principali risorse strategiche venezuelane alla finanza angloamericana. La “pace”, in questa visione, coincide con la sottomissione economica.
George Orwell ha scritto che “chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Il Nobel alla Machado riscrive il passato e addomestica il futuro, trasforma la sovversione in eroismo, la guerra in “democrazia”, la distruzione di un Paese in un atto di libertà. E come ammoniva Simón Bolívar, “gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a infestare l’America di miseria in nome della libertà”.
Il mondo realmente rovesciato di Debord non è più una metafora: è il nostro presente. E in questo teatro delle ombre, il Nobel per la Pace è diventato un’arma di guerra ibrida, ma letale. Una granata lanciata col sorriso. In smoking e abito da sera.
di Marco Pozzi