Cessate il fuoco a Gaza, un Premio Nobel per la pace a Trump? Forse è l’ipocrisia del mondo a meritarselo
Ha diviso il mondo, irritato gli alleati e infranto i protocolli. Ma ha evitato guerre e firmato accordi storici. E ora? Un Nobel?
Dopo gli ultimi sviluppi nella Striscia di Gaza, l’idea di premiare Donald J. Trump con il Nobel per la Pace può sembrare, a prima vista, un paradosso grottesco. Eppure, a guardarla con cinismo — o forse solo con onestà — potrebbe non essere così assurda.
Non si tratta certo di simpatia. Il tycoon newyorkese è tutto fuorché un diplomatico: personalità divisiva, egocentrica, con un passato (e presente) costellato da accuse gravi, gaffe imbarazzanti e un approccio alla politica estera spesso descritto come impulsivo, se non irresponsabile. La sua ex First Lady, con i suoi abiti teatrali, è diventata involontariamente simbolo di un’estetica più da passerella che da presidenza.
Nel 2009 il Nobel fu assegnato a Barack Obama, l’uomo che aveva fatto sognare il mondo con la sua eloquenza, il suo carisma e la sua pelle nera — un simbolo storico, senza dubbio. Ma era ancora all’inizio del suo mandato. Il premio arrivò prima dei risultati, con la fiducia cieca che il cambiamento fosse inevitabile. Invece arrivarono i droni, la Libia, la Siria, l’Afghanistan: guerre vecchie e nuove, con pochi segni tangibili di quella “speranza” che doveva rivoluzionare l’ordine mondiale.
Trump, al contrario, ha sorpreso il mondo con mosse diplomatiche che pochi si aspettavano da lui. Gli Accordi di Abramo, siglati tra Israele e diversi Stati arabi, hanno rappresentato una svolta silenziosa ma significativa in Medio Oriente. Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan, Marocco: Paesi che per decenni avevano rifiutato qualsiasi normalizzazione con Israele, improvvisamente si sono seduti al tavolo. Non c’erano fanfare, non c’erano concerti per la pace. Ma il risultato è rimasto.
Anche con la Corea del Nord, Trump ha infranto i protocolli più consolidati: ha incontrato Kim Jong-un faccia a faccia, attraversando perfino la linea di confine nel villaggio di Panmunjom. Nessun accordo storico è stato firmato, è vero, ma il solo fatto che il dialogo abbia avuto luogo è stato un gesto senza precedenti.
E poi c’è un dato spesso dimenticato: durante i suoi quattro anni alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non hanno intrapreso nuove guerre. È un record piuttosto raro nella storia recente di Washington.
Il punto, quindi, non è che Trump sia un uomo di pace nel senso più nobile del termine. Non è un Mandela, non è un Gandhi. Ma forse, in un’epoca in cui la pace sembra più un’eccezione che una regola, è proprio l’improbabile artefice a meritare attenzione. Il Nobel per la Pace non dovrebbe premiare la perfezione morale, ma l’efficacia concreta nel prevenire i conflitti e favorire la stabilità.
In un mondo che spesso assegna premi sulla base delle intenzioni più che dei risultati, riconoscere meriti a chi non ci piace può sembrare doloroso — ma necessario. Forse, proprio perché è imperfetto, arrogante e spesso sgradevole, Trump è stato in grado di fare ciò che altri non hanno neppure tentato.
Di Aldo Luigi Mancusi