La felicità a Gaza è l’inizio di una speranza: la pace però è un processo più lungo che non è ancora stato raggiunto
Qualcuno pensa che la pace sia una specie di interruttore che si accende e si spegne perché “Basta volerlo e la guerra finisce e c’è la pace”. Il venir meno della guerra non significa simultaneamente avere una pace
Le immagini che arrivano da Gaza della popolazione in festa sono immagini straordinarie, potenti, che se non vivessimo in una società che sbriciola i fatti mischiandone i resti le conserveremmo a lungo. Ma si sa, questa è la società delle immagini a rullo continuo quindi non resterà granché delle potenti istantanee e dei video di queste ore. Forse ci penserà la Storia a tenerle in memoria: se così fosse significherebbe che davvero queste mediazioni sono cruciali.
La dimensione emozionale che stiamo vivendo (anche le piazze di queste settimane hanno vissuto e vivono di emozioni e ciò non significa che non siano altresì importanti) si ripercuote anche rispetto alla idea di pace che ci siamo messi in testa. A Gaza sanno benissimo che - al momento - non c’è alcuna pace, ma c’è una tregua che consente di respirare, di vedere che la polvere e la terra sollevata dalle bombe e dagli scarponi dei militari si depositi a terra un po’ più a lungo. È una pace di momentanea liberazione e di speranza che qualcosa in più si possa ottenere. Ecco perché la nostra idea di pace - quella che urliamo e proponiamo in piazza, nei cortei e nelle discussioni - non è “pace” ma la sbrigativa proiezione di una incapacità di analisi. Qualcuno pensa che la pace sia una specie di interruttore che si accende e si spegne perché “Basta volerlo e la guerra finisce e c’è la pace”. Il venir meno della guerra non significa simultaneamente avere una pace. Talvolta la pace è presidiata in assetto di guerra: la pace in Europa non è mai stata tanto bene come durante la guerra fredda… La pace è un paziente esercizio politico che non si accontenta mai della mediazione raggiunta. Infine la pace politica non pesa quanto il concetto di pace nella fede e nel pensiero.
Nella Striscia hanno imparato che la pace è come l’andatura in bicicletta: necessita sempre di una pedalata che, per quanto leggera, consenta l’equilibrio. Insomma, la pace non sta ferma e può faticare in salita e correre in discesa (senza perdere il controllo); abbisogna di una forza bilanciata e coordinata; sta in equilibrio se c’è la volontà di proseguire, altrimenti si poggiano i piedi a terra e si ferma il cammino.
Allora se la pace è un’andatura in bicicletta occorre pazienza e tenacia. E la consapevolezza che il primo colpo di pedale è il più importante nel brevissimo tratto ai fini dell’equilibrio ed è il più determinante per sistemare la postura. Quello che sta accadendo in queste ore nello scambio di documenti è dunque il primo colpo di pedale: guai ad accelerare o a strappare; ma che capitombolo se perdessimo l’equilibrio… Vedremo cosa accadrà nelle prossime ore. A Gaza sperano di una speranza impastata di gioia. E ci speriamo tutti, onestamente. Perché ognuno ha soffiato nell’illusione di generare quella spinta discreta di sostegno.
I punti dell’accordo saranno verificati nel prosieguo ma più importante della tenuta dei due attori protagonisti (Israele ed Hamas) è la consapevolezza del blocco di potenze arabe che hanno consentito di legittimare il tavolo delle trattative e non smontarlo. C’è il grande lavoro degli Stati Uniti e di Trump, va ammesso: la sua follia (da Nobel per la Pace?) ha trovato l’incanalatura giusta dove evolvere; il suo piglio da businessman ha trovato accondiscendenza nell’olfatto degli emiri e dei principi sauditi, olfatto sensibile all’odore dei dollari e degli affari. Lo scrivemmo durante il tour trumpiano nel golfo arabo: la dimensione geopolitica è condizione necessaria ma non più sufficiente per stare nella globalizzazione, necessita di una proiezione geoeconomica di pari peso. Piaccia o no entrambi sono gli assi cartesiani fondamentali nelle relazioni internazionali del nuovo ordine mondiale. Che richiede stabilità di relazioni nelle aree interessate; per questo la mediazione e gli accordi per una stabilità nell’area mediorientale stavolta “pesano”.
A qualcuno darà fastidio che valori morali ed etici siano alla mercé di una globalizzazione mercatista, ma se portano ad una tregua duratura e alla stabilizzazione dell’area anche attraverso il riconoscimento (finalmente) dello Stato della Palestina, è giusto ritarare il nostro sistema valoriale (ammesso che possiamo ergerci a paladini dello stesso), perché quella gente non ci chiede autorizzazioni. A dirla tutta, siamo “noi” (un noi che riguarda alcuni in particolar modo) che stiamo “usando” e abbiamo usato la tragedia di Gaza per scopi retorici e propagandistici laddove riteniamo di essere titolari delle piazze di solidarietà ovvero le incaselliamo a sinistra (con la complicità della destra di governo che non ha capito quanti suoi elettori abbiamo partecipato alle recenti manifestazione a sostegno della Palestina); oppure nei casi come la Flotilla, sempre più imbottita di una retorica ormai stucchevole (e non voglio citare il condivisibile pensiero del patriarca Pizzaballa sulla… occasione persa), o come le Albanese di turno e compagni vari che sembrano usciti da un reality di finti naufraghi. Tutte miserie che non lasciano traccia.
di Gianluigi Paragone