La crisi della Francia è lo specchio di un fallimento europeo: ora Macron che farà? Scioglierà il parlamento o si dimetterà?

La crisi francese è una crisi che sta dentro una società in profonda evoluzione ed ebollizione, una crisi che l’Eliseo non ha voluto vedere e, anzi, ha tentato più volte di esorcizzare: impedire a chi non piace di provare l’azione di governo

Cinque cambi di governo in tre anni: anche l’ultimo presidente Lecornu si è dimesso ancor prima di cominciare. “Non c’erano le condizioni”, ha motivato a poche ore dall’incarico e ancor prima di affrontare il parlamento. La palla ora passerà nuovamente al primo responsabile di queste crisi, il presidente Macron. Che farà? Scioglierà il parlamento o considererà esaurito il proprio mandato presidenziale? Il fallimento tanto è lì, sotto gli occhi di tutti.

Quali sono le “condizioni” che complicano i governi parigini? Andrebbe messo in controluce uno scenario che comprende la crisi francese senza però esaurirsi in essa. La crisi della Francia è una crisi di paradigma, che lì esplode in una pratica a loro sconosciuta fino a questi anni, cioè i frequenti cambi di governo. La crisi francese è una crisi che sta dentro una società in profonda evoluzione ed ebollizione, una crisi che l’Eliseo non ha voluto vedere e, anzi, ha tentato più volte di esorcizzare: impedire a chi non piace di provare l’azione di governo. Perché infatti addomesticare il secondo turno sempre secondo la logica dell’ammucchiata contro Marine Le Pen? Perché non consentire ai francesi di instradarsi su quella via che indicano, ossia la insoddisfazione verso l’unione europea, verso le sue gabbie economiche imposte a modello comune?

Macron aveva tentato di uscire dall’impasse facendo passare la riforma del patto di stabilità nel tentativo di aggiustare i conti nell’immediato ma complicandoli nel futuro, quando lui sarebbe uscito di scena. Marine Le Pen così come Melenchon su sponde ideologiche opposte puntano l’indice contro lo stesso bersaglio e raccolgono consenso; tanto valeva allora sacrificare l’impianto europeo piuttosto che addomesticare appunto il sistema elettorale del secondo turno. I cinque governi che si sono avvicendati non hanno smosso la situazione che resta fortemente segnata dalle spaccature sociali dettate dal fallimento del modello di (non)integrazione - cioé il modello assimilazionista - e dalle crisi industriali che si scaricano sulla qualità dell’occupazione.

E questo, cioé la qualità dell’occupazione, è un tema che tocca anche l’Italia, dove pure governa una coalizione di centrodestra nominalmente “sovranista” ma in continuità con le linee di Bruxelles, tanto che Confindustria l’altro giorno ha criticato il ministro Giorgetti per l’eccessiva prudenza nel discostarsi da esse. Se un italiano su due non vota significa che c’è un corto circuito enorme, sottovalutato persino dal Capo dello Stato.

È crisi in Germania, per gli stessi motivi: crisi industriali, immigrazione preoccupante, esclusione dei cattivi (AfD). A conferma che le ricette dell’Unione europea - le stesse ricette che andavano bene ai tedeschi fintanto che detenevano il mazzo di carte - sono ricette che instillano un veleno a rilascio graduale ma crescente. Merz faticherà non poco a tenere la barra dritta perchè la spinta “nera” è reale, per quanto tentino di espellere dalla democrazia i rappresentanti di quel partito. Pure in Gran Bretagna l’outsider sgradito al sistema (Farage) è in vantaggio alla faccia delle prediche sul pentimento degli inglesi rispetto alla Brexit: la verità è che la Brexit l’avrebbero voluta ancor più drastica negli effetti.

La morale delle crisi sociali che ovunque emergono, magari con cromature diverse, sta tutta nello scollamento tra popolo e palazzi, i quali palazzi hanno scelto di concentrare orecchio e occhi sulle indicazioni vincolanti delle élite. Il successo delle recenti manifestazioni di piazza in Italia, le mai domate tensioni in Francia o il successo di un partito giovane e radicale qual è AfD in Germania trovano nella spaccatura di cui sopra la ragion d’essere e i punti di contatto. I cittadini europei sono contrari alle guerre ma l’Europa spinge per un piano di indebitamento a favore delle spese militari, le quali non daranno un esercito europeo ma arricchiranno ancor più il comparto produttivo (industria + finanza) così da dopare i numeri della crescita. Le persone si sentono tagliate fuori.

Molti cittadini stanno storcendo il naso rispetto al ruolo della Nato perché ne contestano finanche l’azione che ha generato le tensioni con la Russia, quella Russia che aveva fornito gas e petrolio in grandi quantità e a basso prezzo. Nel Paese sta crescendo questa sensazione di essere non sovrani ma ancellari: ancellari rispetto agli Stati Uniti, rispetto alla Nato e ora rispetto a Israele. La marea umana scesa in piazza è a favore della Palestina non più solo nel senso di quella vecchia posizione prevalente nella Prima repubblica in politica estera (posizione che abbiamo smarrito) ma anche perché a Gaza c’è un popolo che sta subendo l’artiglio del più forte e del più “prepotente”: la posizione filo palestinese ha dentro il rifiuto ad accettare la logica israeliana di poter scompaginare l’area mediorientale in modo arbitrario. E a nulla varrà la predica “non possiamo non stare con Israele” perché qui non si tratta di debiti con la Storia ma di un credito con l’aggiornamento della Storia stessa. Né è possibile offuscare la generosità di tantissime persone per bene con i giochini e i calcoli che arrivano da mezzi leader tanto a destra quanto a sinistra. Quella piazza era ed è trasversale. E aveva una voce. Davvero si può ridurre tutto alle violenze di 300 banditi, delinquenti e guerriglieri del disordine? Oppure a una sottilissima minoranza che tifa per Hamas come se quella fosse la tesi della piazza? Eddai…

È una piazza che ci dice tanto contro quel tutto che è stato imposto negli ultimissimi decenni; è una piazza viva sebbene non immune da contraddizioni (non vedere e non saper pesare il ruolo dell’Islam sunnita è un grave errore, un errore che pagheremo anche nelle dinamiche migratorie). Ma se l’opinione pubblica non trova classi dirigenti mature e strutturate è normale che possa muoversi con delle contraddizioni.

Ultima annotazione. Non è un bene il fatto che non ci sia una spinta così accentuata rispetto ai temi del lavoro nel senso che evidenzia una rassegnazione di questo tempo. Ne abbiamo parlato e ne riparleremo, non fosse altro perché questa crisi ce lo imporrà. A quel punto dovremo tornare a riconsiderare (per questo parlavo di responsabilità da parte del Capo dello Stato) tutti i limiti alla democrazia dati da un sistema elettorale chiuso e viziato, timoroso delle voci minoritarie (?) e dissenzienti.

di Gianluigi Paragone