Incontro Trump-Netanyahu, il tycoon stana Hamas: tra minacce, scuse forzate e Nobel mancati, Gaza è sull’orlo dell’apocalisse
Netanyahu umiliato nello Studio Ovale, Hamas sputa sul piano USA e chiede uno Stato armato. Fine dei giochi?
Ho visto Trump lanciare un piano di pace come si lancia un bicchiere vuoto in un bar di Las Vegas alle tre del mattino: con rumore, prepotenza e la sensazione che qualcuno finirà sanguinante. E quel qualcuno, stavolta, è Hamas.
Questa faccenda l’ho seguita tra caffè bruciati, dichiarazioni avvelenate e una conferenza stampa dove Netanyahu sembrava più un cliente al bancone di un casinò che il leader d’Israele. Quarta visita dell’anno alla Casa Bianca. Quarta umiliazione. Trump, con il suo solito ghigno da bulldog impasticcato, gli ha messo davanti un piano in 20 punti — acqua leggermente frizzante rispetto al whisky diplomatico delle bozze precedenti — e gli ha detto: o questo o il caos.
Il vecchio Bibi ha abbassato la testa. Scuse al Qatar per i raid? Fatte. Accordo annacquato? Firmato. Ma non è finita qui. Trump, come un predicatore armato di mitra, ha mandato un messaggio a Hamas: accettate la pace o Israele vi cancella dalla mappa col nostro benestare. Fine della poesia.
Risposta di Hamas? Una pernacchia con esplosivi. Hanno detto no a Tony Blair, no alla supervisione straniera, no alla pace, sì alla solita minestra riscaldata di “resistenza armata”. Sognano ancora uno Stato armato in una terra che brucia sotto i piedi. Come se i razzi potessero comprare legittimità.
Trump voleva il Nobel. Invece ha ricevuto il solito sputo nel deserto. Ma stavolta l’ultimatum è reale. E l’aria, a Gaza, puzza di ultima occasione.
Di Aldo Luigi Mancusi