Camminando per le strade di Tel Aviv e osservando le persone affrettarsi da qualche parte con espressione preoccupata possiamo quasi dimenticare di essere in guerra. A volte ce lo ricordano i jet che ci sorvolano, ma per la maggior parte del tempo il mondo intorno a noi sembra avere altre preoccupazioni: un giorno è la dichiarazione ottimista di Donald Trump riguardo all’accordo che metterà fine alla guerra, quando il giorno dopo si interessa dell’Ucraina. Anche qui in Israele il focus di interesse vaga fra sondaggi che mostrano che oltre l’80% degli israeliani sono a favore della conclusione immediata della guerra e allegri programmi di cucina trasmessi negli orari di punta.
In una realtà sconcertante nella quale ogni annuncio del nome di un soldato caduto a Gaza ci stupisce ogni volta daccapo, un fatto rimane costante.
Ci sono giorni in cui la speranza sincera che gli ostaggi ritornino in fretta ci sostiene, altri meno. Ci sono giorni in cui i soldati muoiono, altri no. Ci sono giorni in cui sembra che il governo stia per cadere, altri in cui sembra che continuerà a vessarci per sempre. Ma una cosa rimane costante: ogni giorno negli ultimi quattro mesi è morto a Gaza un numero a due o tre cifre di palestinesi: nei giorni per noi israeliani più allegri, in quelli per noi più tristi, mentre piangevamo per un soldato morto e mentre ridevamo per un programma tv, mentre partivamo per la Grecia e mentre rimanevamo bloccati all’aeroporto senza poter rientrare a causa della guerra, quando arrivava la cartolina per l’arruolamento e quando ci siamo beccati l’influenza. Ognuno di quei giorni, a meno di due ore di distanza da casa, bambini, uomini e donne morivano, e la loro morte viene definita un "danno collaterale".
Ogni notte, mentre chiudiamo gli occhi, poco lontano persone che non conoscevamo smettono di respirare. Intere famiglie. E quando vi alzate e controllate sullo smartphone se ci siamo svegliati nel giorno in cui la delegazione israeliana parte per Doha o in cui inizia una crisi di governo, sappiate ancor prima di buttare l’occhio allo schermo, che vi siete svegliati in un altro giorno di morte di esseri umani, vicini, prossimi alle vostre case.
Questa morte non smuove montagne, non riceve l’attenzione dei notiziari in Israele, non è presente, quasi non è riportata, ma è continua, arbitraria, devastante e priva di scopo. La massa di cadaveri di gazawi che continua a crescere scandisce, come un metronomo, il tempo in esaurimento degli ostaggi, i futuri annunci di soldati israeliani caduti, ma soprattutto sta là a rammentarci in quale abisso morale siamo caduti.
Di Etgar Keret