Natalia Ginzburg e l'articolo "Gli Ebrei" del 1972, destinato a rimanere mentre il mondo elaborava lo choc dell'attentato di Monaco

Nel settembre del 1972, mentre il mondo ancora elaborava lo shock dell'attentato di Monaco, Natalia Ginzburg pubblicava su La Stampa un articolo destinato a rimanere nella memoria collettiva per la sua lucidità e il suo coraggio intellettuale nel procedere controcorrente: "Gli Ebrei"

La scrittrice torinese si definiva allo stesso tempo sia ebrea che cattolica (sua madre, Lia Tanzi, di origini ebraiche, milanese, suo padre, Giuseppe Levi, ebreo triestino, professore universitario). Nell'articolo pubblicato da "La Stampa" affrontava uno dei nodi più complessi del Novecento: il rapporto tra memoria del dolore e responsabilità politica, tra vittimismo e giustizia. 

"A volte ho pensato che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli altri essendo sopravvissuti a uno sterminio. Questa non era un’idea mostruosa, ma era un errore. Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita, non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità. Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi, non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente. Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall’altra parte. Ho capito a un certo punto, forse tardi, che gli arabi erano poveri contadini e pastori. So pochissime cose di me stessa, ma so con assoluta certezza che non voglio stare dalla parte di quelli che usano armi, denaro e cultura per opprimere dei contadini e dei pastori. Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che noi amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo Paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria. Forse non era possibile. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute".

  • La trappola del privilegio morale

Le parole della Ginzburg colpiscono per la loro capacità di andare oltre le semplificazioni ideologiche. Quando scrive "A volte ho pensato che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli altri essendo sopravvissuti a uno sterminio", la scrittrice non sta formulando un'accusa, ma confessando una tentazione intellettuale nella quale molti erano caduti. È l'idea che la sofferenza estrema conferisca una sorta di credito morale, un'immunità dalle critiche. Cosa che naturalmente non può essere e non è minimamente accettabile. Non ci si può vendicare su altri per i torti subiti né tantomeno sentirsi superiori a chiunque altro. Riflessione che purtroppo resta drammaticamente attuale, alla luce di quanto sta accadendo oramai da quasi due anni, con lo Stato di Israele che continua a bombardare quel che resta della Striscia di Gaza, poco più che macerie, sangue, morte e distruzione, con decine di migliaia di bambini morti ammazzati, feriti e mutilati. In un'epoca in cui la memoria della Shoah è diventata parte integrante della coscienza occidentale, la Ginzburg ci ricorda che il dolore patito, per quanto incommensurabile, non può mai tradursi in una licenza all'oppressione. La sofferenza non genera automaticamente saggezza, né tantomeno diritti speciali sui propri simili.

  • L'umanità tradita

Il cuore dell'articolo sta forse nel passaggio più doloroso: "Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa". La Ginzburg esprime qui una delusione profonda, quella di chi aveva amato negli ebrei sopravvissuti alla Shoah i tratti che considerava più nobili dell'umanità: "la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi". Questa idealizzazione della vittima, che la scrittrice stessa riconosce come ingenua, rivela però qualcosa di essenziale sui meccanismi della compassione e della solidarietà. Amiamo le vittime finché rimangono tali, finché incarnano la nostra idea di innocenza e vulnerabilità. Ma quando le vittime diventano attori politici, quando reclamano potere e lo esercitano, spesso con la stessa durezza di chi li ha oppressi, allora la nostra simpatia vacilla.

  • La scelta di campo

"Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall'altra parte", dichiara la Ginzburg con una chiarezza che oggi potrebbe sembrare scomoda. La scrittrice opera una scelta di campo che va oltre le appartenenze etniche o religiose, oltre la memoria condivisa del dolore. Sceglie di non stare "dalla parte di quelli che usano armi, denaro e cultura per opprimere dei contadini e dei pastori".

Questa posizione naturalmente non nasce dall'antisemitismo, ma da una coerenza etica che rifiuta ogni forma di oppressione, indipendentemente dalla storia e dall'identità dell'oppressore. È una lezione di universalismo che mantiene tutta la sua forza: i principi morali non possono essere sospesi in nome della storia, per quanto tragica.

  • L'eredità di una lezione

A oltre cinquant'anni di distanza, le parole della Ginzburg continuano a interrogarci. In un mondo dove i conflitti si alimentano spesso di memorie storiche e rivendicazioni identitarie, la sua lezione mantiene una straordinaria attualità. Ci ricorda che la memoria del dolore, per quanto sacra, non può diventare uno strumento di legittimazione dell'ingiustizia.

La grandezza dell'articolo sta anche nella sua capacità di mantenere la complessità. La Ginzburg non nega la tragedia della Shoah, ma si rifiuta di accettare che la memoria di quanto accaduto possa giustificare l'oppressione di altri popoli. È una posizione che richiede coraggio intellettuale, perché va contro la tendenza a schierarsi per tribù e appartenenze.

  • Verso una memoria responsabile

L'insegnamento più profondo che possiamo trarre da queste riflessioni è forse questo: la memoria del dolore deve tradursi in responsabilità verso tutti gli oppressi, non in privilegio per i propri simili. La vera fedeltà alle vittime della storia non sta nel perpetuare cicli di vendetta o nel reclamare diritti speciali, ma nell'impegnarsi perché nessun altro debba subire ciò che esse hanno patito.

In questo senso, le parole della Ginzburg non sono solo una riflessione sul conflitto israelo-palestinese, ma un invito a ripensare il rapporto tra memoria e giustizia, tra identità e universalismo. Un invito che, in tempi di crescenti polarizzazioni, suona più necessario che mai.

Di Eugenio Cardi