La Global Minimum Tax del 15% non varrà per gli Usa per via dell'accordo al G7, colpita l'Europa, costi di compliance elevati e scarso gettito
La tassazione minima al 15% non varrà quindi per gli USA, che in contropartita rinunciano alla "revenge tax", ovvero il meccanismo della Sezione 899 del "Big Beautiful Bill" che prevedeva l'aumento progressivo delle ritenute statunitensi sui dividendi in uscita dal Paese
La complessità delle regole e della burocrazia e l'elevata pressione e incertezza fiscale sono inversamente proporzionali alla attrattività di un Paese. Sicuramente gli Stati Uniti devono aver pensato questo nel combattere e vincere la battaglia per ottenere la sostanziale esenzione dalla Global minimum tax, che sarebbe costata molto alle loro multinazionali. La tassazione minima al 15% non varrà quindi per gli USA, che in contropartita rinunciano alla "revenge tax", ovvero il meccanismo della Sezione 899 del "Big Beautiful Bill" che prevedeva l'aumento progressivo delle ritenute statunitensi sui dividendi in uscita dal Paese.
La global minimum tax diventa quindi sempre di più una 'European minimum tax', con costi di compliance che rischiano di essere di gran lunga più elevati del gettito in grado di generare in Europa.
E' la manifestazione plastica della crisi della fiscalità che sta oscurando quegli obiettivi oggi imprescindibili di semplificazione, approccio ex ante e prevedibilità dell'imposizione e standardizzazione delle regole internazionali. Obiettivi descritti nel volume "Questioni attuali di tax governance e fiscalità internazionale", presentato al X DLA Piper tax day, dove si evidenzia che sia le regole di buona governance che quelle di fiscalità internazionale, sia le iniziative legislative che quelle di soft law, devono inseguire la stella polare della certezza del diritto, valore assoluto in un mondo che cambia così in fretta nelle sue dinamiche economiche e prima ancora politiche e sociali.
Questa ambizione è spezzata dal contesto geopolitico che si descriveva, dove alla guerra commerciale dei dazi, che la storia economica insegna far male anche a chi li impone, si affianca quella sulla fiscalità diretta, con l'"elefante nella stanza europea" rappresentato appunto dalla tassazione minima del Pillar 2. L'"uscita" degli USA deve portare a un ripensamento della misura, che, se si vuole tenere, va radicalmente semplificata e andrebbe trasformata in un meccanismo di regolazione della competizione fiscale all'interno dell'Unione. Del resto è ovvio che occorre maggiore convergenza tra i Paesi membri dell'Unione Europea anche sulla fiscalità diretta, non solo sulla buona proposta di introdurre una tassazione su base consolidata europea (Befit), ma anche sul concetto di "presenza digitale" e più in generale della tassazione delle forme di ricchezza digitali e aterritoriali, sulle regole di transfer pricing (le cui metodologie di calcolo – TNMM ma anche CUP - oggi sono messe alla prova dai dazi, con rischi di doppie imposizioni e di contenziosi). La via più immediata potrebbe essere una rimodulazione della digital service tax chiarendone (come già rilevato tempo fa su queste colonne) la natura di tributo diretto, meglio delineando esenzioni dimensionali e soggettive e "portandola" nei Trattati, con la possibilità quindi di gestirne la doppia imposizione nei Paesi delle case madri.
Poi, oltre che il Pillar 2, la semplificazione, questo mito ancor più irraggiungibile dell'amore tra Eros e Psiche, dovrebbe abbracciare, riconducendoli "ad unità", tutti quei variegati meccanismi imposti da DAC, ibridi, Cbcr e scambi di informazioni. Nell'epoca dei "dati", non è possibile mantenere tutti questi costosissimi obblighi di comunicazione e reporting.
La leva tributaria, diretta o indiretta che sia, non può imporre obblighi sovradimensionati o addirittura diventare strumento per alimentare la conflittualità, smarrendo le sue funzioni più nobili, su tutte quella redistributiva.
Il percorso, decisamente in salita, potrebbe essere agevolato dalla diffusione di un approccio preventivo nella gestione della fiscalità e quindi dalla estensione più marcata nei Paesi membri dei programmi di cooperative compliance, sulla quale in Italia si sono compiuti grandi passi avanti, anche nel suo "integrarsi" con gli altri sistemi di controllo interno, nell'ottica di un miglioramento complessivo della governance e della reputazione aziendale.
Di Antonio Tomassini