In Arabia Saudita Trump critica l'interventismo occidentale, e celebra la crescita dei paesi sovrani
Il Tycoon torna a contrastare la visione imperiale dei neconservatori come aveva fatto nel suo primo mandato
Nel primo viaggio ufficiale all'estero della sua seconda presidenza, Donald Trump è tornato alle sue radici: ha espresso in termini netti la sua critica alla politica dei neoconservatori, che credono nell'intervento politico e militare per cambiare gli altri Paesi. Dopo aver elogiato la grande crescita dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, il Tycoon ha sottolineato che la trasformazione "non è stata opera degli interventisti occidentali... che vi hanno dato lezioni su come vivere o governare i vostri affari".
I commenti sono stati notati, tanto da indurre alcuni commentatori a parlare di un "cambiamento di paradigma" nella politica estera americana ad opera di Trump. In realtà si tratta di un ritorno a quanto aveva espresso durante il suo primo mandato, quando decantava la sovranità nazionale non solo degli Stati Uniti, ma anche come principio delle relazioni internazionali. Vale la pena leggere le parole di Trump a Riad, presentate dalla Casa Bianca come l'approccio del presidente alla costruzione di una regione più stabile e un mondo più pacifico. Seguono alcuni passaggi significativi.
"No, le meraviglie scintillanti di Riyadh e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti 'costruttori di nazioni', 'neoconservatori' o 'organizzazioni liberali senza scopo di lucro…'. Al contrario, la nascita di un Medio Oriente moderno è stata opera degli stessi popoli della regione... che hanno sviluppato i propri paesi sovrani, perseguito le proprie visioni uniche e tracciato il proprio destino”.
“Alla fine, i cosiddetti 'costruttori di nazioni' hanno distrutto molte più nazioni di quante ne abbiano costruite, e gli interventisti sono intervenuti in società complesse che non capivano nemmeno loro stessi“.
- “Negli ultimi anni, troppi presidenti americani sono stati afflitti dall'idea che sia nostro compito scrutare l'animo dei leader stranieri e usare la politica degli Stati Uniti per dispensare giustizia per i loro peccati... Credo che sia compito di Dio giudicare, il mio compito è difendere l'America e promuovere gli interessi fondamentali della stabilità, della prosperità e della pace”.
Una esposizione così chiara da parte di Trump non si era mai sentita, soprattutto nella seconda amministrazione. Anzi, nei primi mesi del 2025 il Tycoon ci aveva abituato a una politica che assomigliava più a un ritorno all'imperialismo, con minacce a Panama, alla Groenlandia e al Canada. Sembrava una rottura con la visione sovranista del passato, laddove il sovranismo era inteso come rispetto per il principio di non ingerenza negli affari delle altre nazioni, seguendo la tradizione del Trattato di Westfalia che aveva siglato la fine della Guerra dei Trent'anni in Europa nel 1648.
Ora – per fortuna, mi verrebbe da dire – emerge un ragionamento più consono allo spirito americano anti-imperiale, cioè a quella fazione negli Stati Uniti che non condivide affatto la postura del Secondo dopoguerra, fin troppo simile a quella delle vecchie potenze europee, con in testa la Gran Bretagna. È stato questo modello, basato prima sugli imperi coloniali del vecchio continente e poi sulla potenza militare americana sfruttata per mantenere il cosiddetto ordine liberale internazionale a suon di bombe, il giusto bersaglio dei movimenti populisti dell'ultimo decennio, con la critica feroce non solo delle guerre pretestuose e dannose nel Medio Oriente allargato, ma anche della politica economica della globalizzazione liberista che le ha accompagnate.
Nel primo mandato, i tentativi di Trump di riportare le truppe a casa e di iniziare una nuova fase di diplomazia con i Paesi considerati nemici degli Stati Uniti hanno avuto successo limitato. Nel secondo, la lotta alla fazione neoimperiale è sembrata traballare, con il linguaggio muscolare e semplicistico spesso utilizzato dal Tycoon. Ora, le parole di Riad aprono una nuova fase.
Indubbiamente si sentiranno delle critiche – anche giuste – rispetto al ruolo dei Paesi del Golfo, sia in merito al terrorismo sia sul versante dei diritti umani. E Trump stesso mostra non poche contraddizioni, spesso pericolose, per esempio sui temi di Israele e dell'Iran. D'altra parte, è anche indubbio che il ritorno a un Trump anti-interventista dovrebbe essere accolto con favore da tutti coloro che avversano la visione imperiale delle relazioni internazionali.
Le parole pronunciate a Riad sono state sorprendenti e interessanti; ora si attende un cambiamento sostanziale da parte del presidente americano, per consolidare la direzione positiva accennata con il suo arrivo sulla scena politica dieci anni fa.
Di Andrew Spannaus