Dazi, le borse a picco, la finanza usa pensionati e lavoratori come scudi umani, qui la sfida è tra politica e banksters

È innegabile che per la prima volta la finanza e le élite fanno i conti con la follia di un presidente che mette la sua Nazione prima delle multinazionali e dei mercati

L’ultima perla della narrazione a senso unico è che la turbolenza dei mercati finanziari va fermata per proteggere i cittadini come se le Borse fossero costruite per la ricchezza di lavoratori, piccoli imprenditori e pensionati. Certo, le perdite di questi giorni colpiscono anche loro ma solo perché bersaglio indiretto, scudi umani, usati dai bankster cioè dai banchieri gangster. I quali hanno la massimalizzazione dei profitti loro e degli azionisti come target. Il vantaggio (eventuale) dei cittadini è solo secondario ed accessorio!


Ormai è chiaro che la finanza ha ingaggiato una sfida di sistema contro non tanto Donald Trump ma contro un presidente che ha deciso di imprimere una svolta politica contro il neoliberismo. E non è nemmeno un caso che Elon Musk sia critico verso le recenti mosse della Casa Bianca: i suoi miracoli imprenditoriali sono anche frutto della finanziarizzazione dell’economia. La sfida, dicevamo, è politica e si gioca sull’allineamento tra Wall Street e Main Street, tra mercati e paese reale. “Il globalismo del libero mercato è stato incoraggiato in gran parte dalle potenti multinazionali”, scrive l’editorialista economica di punta del Financial Times, Rana Foroohar nel suo recente libro “La Globalizzazione è finita” (Fazi editore). “La loro è diventata una sorta di crociata per diffondere questo nuovo credo americano in tutto il mondo, regalando l’emozione dei franchising di McDonald’s e degli iPhone di Apple”. Multinazionali col sostegno della finanza e Cina sono stati i soli a monetizzare la globalizzazione, mentre a farne le spese è stata quella middle class e quella working class che ad ogni latitudine ha sfogato il proprio stress consegnandosi elettoralmente ai campioni del nazionalismo e a chi puntava l’indice contro il Sistema.

Non solo i sentimenti - prosegue la Foroohar - ma anche i dati ci dicono che, in base ad alcune misurazioni fondamentali, la globalizzazione è stata un fallimento. Se è vero che la globalizzazione ha reso il pianeta più ricco nel suo complesso, questa ricchezza si è però concentrata in gran parte in alto tra le élite finanziarie e manageriali che possiedono la maggior parte delle risorse (…) Il costo delle cose che fanno di noi una classe media (una casa, la sanità e l’istruzione) è aumentato a dismisura; il potere monopolistico delle imprese è cresciuto, e così pure il capitalismo di Stato (cinese ndr)”. Tra gli effetti rovinosi di questa finanziarizzazione dell’economia troviamo: “La scomparsa delle aziende agricole a conduzione familiare e il crollo delle piccole imprese allorché il Paese ha barattato i posti di lavoro con i prezzi bassi dei grandi magazzini, l’esternalizzazione della produzione in Cina e in altre parti del mondo in via di sviluppo e il conseguente declino dell’innovazione e della crescita, soprattutto negli Stati Uniti. (…) I prezzi più bassi non hanno compensato la perdita di posti di lavoro e di reddito, soprattutto perché sono aumentati i prezzi di tutto ciò che ci rende una classe media: alloggi istruzione e assistenza sanitaria. Le multinazionali e chi le dirige sono indifferenti alle esigenze dei loro paesi di origine. Quel che abbiamo oggi non è più un sistema di mercato autenticamente libero, in grado di consentire transazioni produttive ed eque tra acquirenti e venditori in condizioni di parità, ma piuttosto una struttura di potere concentrato e oligopolistico”.


“La Globalizzazione è finita” - testo che in nulla va considerato trumpiano, sia chiaro - ci consente di capire lo scontro in atto e del perché la sfida politica di riequilibrio tra Wall Street e Main Street è una sfida ad alta intensità: Trump sa che la finanza è stata abituata a dettare le agende internazionali in nome del laissez faire anche a scapito delle Costituzioni, così come sa che la globalizzazione ha penalizzato i lavoratori americani a favore di quelli dei Paesi cosiddetti emergenti dove i processi avvengono in violazione delle regole. Si ricordi che le condizioni assolutamente di favore con cui la Cina fu fatta entrare nel Wto non sono mai cambiate, sebbene oggi il “peso” del Dragone sia decisamente diverso da quel 2001.


La finanza non vuole il riallineamento e lo sta dimostrando, perché ciò comporterebbe una compressione dei margini di profitto stellari che l’allungamento delle catene produttive garantiscono a manager strapagati per il solo fatto di assicurare profitti e non la tenuta industriale.
Elon Musk è figlio di questa logica, è un uomo di questa catena lunga (le Tesla si fanno per lo più in Cina), per questo non asseconda la sfida di Trump. La quale ha un costo e ha sicuramente delle negatività anche per i lavoratori e per la classe media; tuttavia questa classe media è stata trattata dai bankester come la famosa rana nella pentola portata lentamente a ebollizione. Il disegno di Trump è rilanciare la manifattura e riequilibrare la bilancia commerciale americana. “Il mondo si sta già riassestando. La regionalizzazione e la localizzazione rappresentano il futuro. Le catene di approvvigionamento vanno accorciandosi”, è la tesi della Foroohar.

Siamo in una fase muscolare che ancora non ha raggiunto la massima intensità, ma è innegabile che per la prima volta la finanza e le élite fanno i conti con la follia di un presidente che mette la sua Nazione prima delle multinazionali e dei mercati.

di Gianluigi Paragone