Dazi, l'obiettivo dell'amministrazione Trump è di riportare la produzione negli USA, abbandonando la logica del libero scambio globale

Il calcolo dei dazi da applicare contro gli altri paesi si basa semplicemente sul disavanzo commerciale, visto come il colpevole del declino economico

Durante la conferenza stampa per il "Liberation Day" del 2 aprile, il presidente americano Donald Trump ha presentato una tabella con le percentuali dei dazi da imporre a vari paesi. I valori indicati corrispondono a circa la metà dell'importo che i suoi esperti hanno calcolato come il danno provocato da ciascun paese agli Stati Uniti. Pochi hanno compreso il significato di questi numeri, poiché il presidente ha parlato di dazi e barriere imposte da altri paesi, che spesso sembrano non esistere. La realtà è più semplice, ma anche più preoccupante per chi spera di negoziare con la Casa Bianca per evitare penalizzazioni sul proprio export.

Un membro dell'ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti ha fornito ai giornalisti la formula utilizzata, tanto elementare quanto devastante: si tratta di dividere il surplus commerciale di un paese per il totale delle sue esportazioni verso gli USA. In questo modo si misura la percentuale delle esportazioni che non vengono compensate da beni americani scambiati con il relativo paese. L'esito è lineare, ma non riflette dazi, barriere o pratiche scorrette: indica semplicemente l'export verso l'America che non viene controbilanciato dalle importazioni nella direzione opposta. In altre parole, chi riesce a vendere i propri prodotti negli USA sta "fregando" gli americani.

Si tratta di un’accusa che appare ridicola in termini tecnici e che, infatti, non ha alcun valore come criterio per giudicare la correttezza commerciale di un paese. Tuttavia, ha grande importanza agli occhi dei consiglieri "America First" del Tycoon: secondo loro, non c'è motivo per cui gli USA dovrebbero acquistare così tante merci dall'estero invece di produrle internamente. Di conseguenza, si imporranno i dazi – pari alla metà della percentuale indicata, per non esagerare – con l'obiettivo di incentivare la manifattura interna e riequilibrare il deficit accumulato negli ultimi decenni.

Avviso ai rappresentanti dei paesi colpiti: sarà inutile protestare appellandosi alla teoria economica classica, criticando il protezionismo come una forma di isolazionismo che prelude ai conflitti internazionali. Non servirà nemmeno ricordare che l'America vanta un grande avanzo nei servizi digitali, grazie alle Big Tech, perché l'obiettivo dichiarato è far crescere la produzione manifatturiera, ormai indiscutibilmente spostata fuori dagli USA verso paesi con un costo del lavoro più vantaggioso.

Vale la pena ricordare che è stata proprio l'America a costruire questo modello, nel nome dell'efficienza del libero mercato e per arricchire i propri azionisti. La globalizzazione non è arrivata per caso, ma è il risultato di scelte precise dettate da un sistema finanziarizzato e post-industriale. Tuttavia, anche questa constatazione non cambierà il calcolo di base dei trumpiani, che hanno una risposta pronta: sono stati i politici americani del passato a sbagliare, ora la musica è cambiata ed è il momento di ricostruire il paese.

Per questo motivo, la strada per attenuare gli effetti dei dazi di Trump non sarà tanto breve. Da un lato, sarà necessario tentare di negoziare, cercando di individuare elementi che possano attirare l’amministrazione nell’ottica di una promozione degli interessi reciproci. Dall’altro, occorre accettare che il mercato subirà inevitabilmente dei cambiamenti: basare la propria economia sull’export verso gli Stati Uniti diventerà un modello più rischioso.

Certamente esistono tanti settori specifici in cui altri paesi sono all’avanguardia e potranno quindi continuare a vendere negli Stati Uniti. Prima o poi l’amministrazione comprenderà che è più conveniente concentrarsi su alcuni settori strategici – come aveva fatto Biden – piuttosto che cercare di colpire indiscriminatamente tutti. Forse, inoltre, eviterà di sabotare la politica industriale avviata negli ultimi anni, ora messa a rischio dai profondi tagli richiesti da Elon Musk e dai repubblicani più conservatori al Congresso.

Nel breve termine, bisogna mantenere i nervi saldi e attendere che le pressioni interne costringano Trump a procedere con maggiore pragmatismo. Sul lungo periodo, invece, sarà necessario ripensare alle strategie di politica industriale a livello nazionale, puntando sullo sviluppo del mercato interno, spesso trascurato nella corsa a inserirsi nei meccanismi internazionali promossi dalla globalizzazione.

Di Andrew Spannaus