Ucraina, Putin stretto tra il compromesso della tregua e gli obiettivi della fazione nazionalista in Russia

Accettare la proposta di cessate il fuoco significa ripristinare il Putin pre-2022, avverso agli ideologi conservatori

Donald Trump ha fatto la sua parte. Con le cattive, ha costretto Volodymyr Zelensky ad accettare l'idea di congelare il conflitto ucraino lungo le linee attuali, per poi avviare una trattativa con Mosca. E i paesi europei, nonostante l'indignazione espressa per i modi del presidente americano, si sono mossi rapidamente per offrire una prospettiva di garanzie di sicurezza per Kiev, ipotizzando l'invio di armi e persino di truppe in Ucraina, riconoscendo che Washington non vuole avere una presenza militare significativa nel Paese.

Ora è il turno di Vladimir Putin. Il leader russo, però, deve affrontare non pochi problemi nel rispondere alla proposta di cessate il fuoco concordata tra USA e Ucraina in Arabia Saudita questa settimana. Le difficoltà riguardano la situazione sul terreno, dove la Russia è convinta di essere in vantaggio e quindi non vuole perdere l'occasione di continuare ad avanzare. Ancora più rilevante è la gestione dell'opinione pubblica e del sentimento delle istituzioni in Russia. La narrazione di questi anni sulla battaglia esistenziale contro l'Occidente lascia poco spazio al compromesso che si profila in questi mesi.

Per comprendere la posizione di Putin, occorre tornare indietro al periodo precedente alla guerra. Per molti anni il presidente russo, a differenza di quanto raccontano buona parte dei media occidentali, non aveva abbracciato appieno la fazione nazionalista all'interno della Russia. Anzi, aveva sempre mantenuto una certa disponibilità a trattare con gli americani, instaurando rapporti spesso collaborativi con Washington.

Si può ricordare, ad esempio, l'accordo con Barack Obama nel 2013 per disinnescare la crisi siriana. Allora si rischiava un nuovo intervento militare occidentale, ma la disponibilità di Putin ad aiutare il presidente americano a raggiungere un'intesa per la rimozione delle armi chimiche dal Paese permise a Obama di non ripetere gli errori della Libia. Lo stesso vale per il contributo dato alla stesura dell'accordo sul nucleare con l'Iran nel 2015.

Non bisogna dimenticare nemmeno il vertice di Ginevra con Joe Biden nel giugno 2021, quando i due presidenti avviarono una serie di progetti di collaborazione nell’ambito dell'annunciato "dialogo tra le grandi potenze". Questi progetti durarono poco, data l'accelerazione della crisi ucraina pochi mesi dopo, ma all'epoca era evidente che la possibilità di relazioni migliori era alla portata di entrambe le parti, se solo fossero riuscite a respingere le pressioni delle fazioni più oltranziste da ambo i lati.

 

Non è andata così, chiaramente. Tra la spinta per riportare i territori del Donbass sotto il controllo di Kiev e il progetto di far entrare l'Ucraina nella NATO, da un lato, e la volontà di Putin di rivedere l'intero assetto di sicurezza dell'Europa orientale, chiedendo un passo indietro dell'Alleanza Atlantica, dall'altro, la situazione è rapidamente deteriorata.

Anche qui, però, occorre fare alcuni distinguo. Se è vero che il Cremlino ha mentito spudoratamente quando negava l'intenzione di avviare l'operazione militare, va anche riconosciuto che Putin ha sempre mostrato resistenze nel fare proprio un progetto esplicitamente imperiale, nonostante questa visione fosse ben radicata nelle istituzioni russe. Dal 2014 in poi, il presidente aveva preferito mantenere i territori del Donbass come una zona di cuscinetto, piuttosto che annetterli direttamente. Con questa strategia, Putin riusciva a tenere a bada gli istinti più aggressivi di alcuni suoi consiglieri, proseguendo con un approccio più pragmatico, consapevole del rischio di entrare in un conflitto aperto con l’Occidente.

Questa posizione è stata confermata dalle parole del noto filosofo e politologo Alexander Dugin, spesso citato come la mente pericolosa dietro i piani di Putin. Quando lo intervistai nel 2018, parlò di due facce del leader del Cremlino: un "Putin solare", quando abbraccia il nazionalismo e antagonizza l'Occidente, e un "Putin lunare", quando si circonda di personaggi liberali e tende la mano verso Washington.

Questa schizofrenia – che secondo Dugin era equamente divisa nelle azioni del presidente – è stata essenzialmente risolta con l'invasione dell'Ucraina nel 2022. Non si è trattato di un'operazione limitata per rafforzare il Donbass contro le forze ucraine, ma di un tentativo di rovesciare il governo di Kiev e riportare l'intero paese nella sfera d’influenza di Mosca. Negli ultimi tre anni, la fazione conservatrice e imperiale – nelle istituzioni, così come tra molti personaggi influenti del mondo militare e mediatico – ha acclamato la scelta di Putin, sposando gli obiettivi massimalisti enunciati dal Cremlino.

Ora, però, l’approccio dell’Occidente è cambiato. Trump intende perseguire quello che è il vero interesse di Washington: non più lo scontro con l’ex avversario della Guerra Fredda, ma il dialogo e la collaborazione, per evitare di spingere Mosca verso un’alleanza sempre più stretta con la Cina in un mondo diviso in due grandi blocchi. Non si può cancellare quanto accaduto in questi anni, ma gli annunci dell’amministrazione USA sulla volontà di perseguire le "opportunità straordinarie" di cooperazione economica e geopolitica con la Russia dopo la guerra indicano l’entità del cambiamento possibile.

Ora Putin si trova in difficoltà. Il primo problema è che vuole riprendere i territori russi ancora in mano agli ucraini. Andare a negoziare mentre Kiev detiene una parte della regione di Kursk sarebbe uno svantaggio significativo. Meglio prendere tempo, soprattutto ora che le forze russe stanno finalmente facendo progressi rilevanti su questo fronte.

Più in generale, però, c’è il problema della potenziale opposizione interna a un accordo. Molti in Russia sono convinti che sia necessario controllare l’intera Ucraina e respingere l’avanzata della NATO nell’Europa orientale. Se l’esito della guerra si limiterà al controllo del Donbass o poco più, come si potrà giustificare l’enorme sforzo compiuto e tutta la retorica sulla sfida esistenziale?

Una soluzione realistica alla guerra in Ucraina è ormai davanti agli occhi di tutti: fermare le armi e avviare una trattativa per riconoscere, più o meno, la divisione del Paese lungo le attuali linee del conflitto. Kiev non entrerà formalmente nella NATO, ma nei fatti la sua indipendenza sarà garantita dall’Occidente. I rapporti economici con la Russia riprenderanno gradualmente, ma a fronte dell’impegno di Mosca a rinunciare a ulteriori tentativi di ristabilire la propria sfera d’influenza del passato.

Accettare queste condizioni rappresenterebbe per Putin un arretramento rispetto all’abbraccio della visione nazionalista. Un ritorno del "Putin lunare", secondo gli ideologi conservatori. Sarebbe un passo avanti significativo per le relazioni internazionali, ma il presidente sa bene che non sarebbe accettato del tutto all’interno del Paese, aprendo così il rischio di un’instabilità istituzionale da gestire con estrema cautela.

Di Andrew Spannaus