Medioriente, la pace è possibile, ma è fondamentale che cambi la leadership in Iran, la palla passa a Trump
Una pace duratura nella regione è certamente raggiungibile, ma la chiave risiede in un cambiamento che coinvolga direttamente l’Iran
L'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca preannuncia un cambiamento significativo nella politica estera degli Stati Uniti, con serie ripercussioni sui conflitti scoppiati durante l’amministrazione Biden in Ucraina e in Medio Oriente. Questi conflitti, iniziati e aggravati sotto una politica estera statunitense controversa e ambigua voluta da Biden e gestita da Antony Blinken, si sono progressivamente intensificati e, fino ad oggi, non hanno creato vere prospettive di pace. Tale politica si è rivelata, infatti, inefficace nel prevenire escalation costanti; anzi, in molti casi ha contribuito ad alimentare ulteriormente le tensioni e le ostilità tra le parti in causa.
Di fronte a questo scenario, Donald Trump ha sempre mantenuto una posizione critica rispetto all'interventismo estero, dichiarando sin dal suo primo mandato la volontà di ridurre il coinvolgimento militare statunitense all'estero e di promuovere la stabilizzazione attraverso il disimpegno militare. Riguardo al conflitto in Ucraina, Trump ha continuamente affermato che avrebbe cercato di evitare l'intensificarsi delle ostilità, puntando a risolvere la crisi con mezzi diplomatici e sottolineando l'importanza di relazioni bilaterali strategiche in grado di scoraggiare l’escalation. Coerente con questa linea, ha anche promesso di poter porre fine alla guerra in Ucraina addirittura prima dell’inizio ufficiale della sua presidenza, previsto per il 20 gennaio 2025.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, invece, la situazione appare più complessa, caratterizzata da una frammentazione marcata delle forze in campo. A differenza della guerra in Ucraina, che coinvolge principalmente due Stati sovrani e due leader autorevoli nei rispettivi paesi, il conflitto in Medio Oriente vede in azione una molteplicità di attori, tra cui non solo Stati, ma anche organizzazioni terroristiche che non si sentono vincolate da alcuna norma internazionale. Si tratta spesso di gruppi paramilitari, ideologicamente estremi e dichiaratamente anti-sistema rispetto all’ordine internazionale stabilito, armati e addestrati con l’obiettivo di realizzare tali ideologie.
La frammentazione dell’arena mediorientale rende estremamente difficile una risoluzione diplomatica convenzionale; infatti, il conflitto coinvolge soggetti non statali e alleanze variabili, con obiettivi che spaziano dalla supremazia regionale alla diffusione di specifiche ideologie religiose e politiche.
Ciononostante, soprattutto grazie all’eliminazione di numerosi leader di gruppi terroristici, Hamas e Hezbollah, e all’annientamento di una parte rilevante delle loro capacità belliche, la prospettiva di pace in Medio Oriente sembra a portata di mano per il nuovo governo Trump. Con una politica orientata al disimpegno diretto ma supportiva del governo Netanyahu e con l’obiettivo di promuovere la stabilità tramite partenariati strategici con Israele e con le monarchie arabe della regione, l’amministrazione Trump potrebbe concentrarsi sul contenimento dell’influenza regionale iraniana.
Tuttavia, per una pace stabile e duratura in Medio Oriente è necessario andare oltre il semplice cessate il fuoco e oltre il contenimento del regime iraniano tramite le consuete sanzioni economiche, ormai facilmente aggirate dal regime. Le sanzioni americane più severe, adottate durante il primo governo Trump ma in gran parte allentate dall'amministrazione Biden-Harris, avevano bloccato quasi totalmente il commercio iraniano con l’Europa. Tuttavia, il regime iraniano ha sostituito i clienti europei con quelli cinesi, che, nonostante acquistino il petrolio a prezzi scontati, continuano a riempire le casse degli ayatollah e dei loro Pasdaran.
In questo contesto, e dopo anni di diplomazia occidentale focalizzata esclusivamente su una strategia ormai obsoleta di pressione economica e su un’illusoria speranza di “cambio di condotta del regime”, è giunto il momento di affrontare le questioni di fondo che da decenni alimentano tensioni e instabilità. I popoli mediorientali – non solo israeliani e palestinesi, ma anche le altre popolazioni della regione, spesso costrette a vivere sotto la minaccia del terrorismo, del fondamentalismo islamico, dell'instabilità politica e della povertà estrema – potrebbero beneficiare solo di una pace costruita su fondamenta solide di sviluppo economico e giustizia sociale, non di un cessate il fuoco temporaneo che rappresenta poco più di un cerotto su una ferita profonda e ancora sanguinante.
Una situazione di pace e progresso per il Medio Oriente è oggi possibile, e con l’amministrazione Trump si spera di poter avanzare concretamente verso questa realizzazione. Una pace duratura nella regione è certamente raggiungibile, ma la chiave risiede in un cambiamento che coinvolga direttamente l’Iran. Sebbene sia forse prematuro affermarlo con certezza, la composizione del nuovo governo Trump – con alcune nomine ufficializzate negli ultimi giorni – mostra un approccio significativamente diverso rispetto al governo del 2016. Tutti i nomi proposti finora per le posizioni di alto livello nell’amministrazione Trump, dal Segretario di Stato al Vicepresidente, dal Consigliere per la sicurezza nazionale all’Ambasciatore presso le Nazioni Unite, sono personalità note per una linea dura nei confronti del regime iraniano.
Nella scacchiera mediorientale, Israele possiede oggi sia l’intenzione che i mezzi per indebolire e persino distruggere definitivamente Hamas e Hezbollah; l’Occidente ha la possibilità e anche le capacità di mediare un cessate il fuoco. Tuttavia, finché persiste il regime degli ayatollah in Iran, non vi sarà alcuna garanzia che nel Medio Oriente non si ricrei l’attuale situazione o non emergano nuovi episodi drammatici come quello del 7 ottobre.
L’Iran è il Paese chiave del Medio Oriente e finché in tale Stato persiste un regime totalitario, un regime fondato su un'ideologia di odio verso l’Occidente e il mondo libero, che dichiara apertamente l’intenzione di cancellare lo Stato d’Israele dalle mappe geografiche, una pace vera e stabile appare difficile, se non impossibile, da raggiungere.
Il regime degli ayatollah controlla il petrolio iraniano, ovvero alcuni tra i più grandi giacimenti petroliferi al mondo, e domina un vasto territorio ricco di risorse energetiche e minerarie, contando sul sostegno internazionale di Cina e Russia, suoi principali partner militari ed economici. Questo sostegno limita considerevolmente l’efficacia delle sanzioni occidentali sull’economia iraniana. Grazie a questi fattori, la Repubblica islamica dell’Iran può continuare a sostenere i propri alleati regionali e a formare nuove milizie e gruppi proxy in Medio Oriente, come ha fatto sin dagli anni ’80 con Hezbollah e, più recentemente, con gli Houthi nello Yemen e le forze della Hashd al-Shaabi nell’Iraq. Gli obiettivi dichiarati del regime sono rimasti invariati dalla sua fondazione nel 1979: la distruzione di Israele, l’opposizione all’Occidente e il controllo ideologico e politico della gioventù e della popolazione iraniana, un controllo che si è fatto negli anni sempre più oppressivo e violento. Le enormi risorse naturali dell’Iran, sulle quali il regime esercita un monopolio completo, insieme alla partnership strategica con Cina e Russia, consentono alla Repubblica islamica di finanziare e sostenere tali politiche sia a livello interno che internazionale, continuando a perseguire la propria agenda ideologica e geopolitica.
Una pace duratura in Medio Oriente e l’esistenza del regime islamico in Iran sono inesorabilmente incompatibili. Ignorando questo fatto, l’Occidente potrà forse mediare un cessate il fuoco temporaneo, ma non potrà sperare in una pace autentica e duratura che dia l’avvio alla stabilizzazione del Medio Oriente. Esattamente come la fine del conflitto tra Israele e Hezbollah nel 2006, sancita dalla Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, non ha potuto garantire la pace nella regione. Esattamente come la fine del conflitto tra Israele e Hezbollah nel 2006, sancita dalla Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, non ha portato a una pace duratura. Anche oggi si potrebbe percorrere la stessa strada, ottenendo una tregua che potrebbe durare qualche anno, ma che resterà comunque fragile. Oppure, si potrebbe affrontare direttamente il problema di fondo: il regime degli ayatollah.
Fortunatamente, una tale missione potrebbe essere compatibile con la politica estera promossa e voluta da Trump e dai suoi uomini, caratterizzata da un disimpegno militare degli Stati Uniti nella regione e dalla volontà di evitare l’esplosione di nuovi conflitti armati. Ciò sarebbe reso possibile dalla situazione socio-politica dell’Iran e dalla sua vivace società civile, che potrebbe rappresentare la chiave per un cambiamento tanto in Iran quanto nell’intera regione. Da anni, infatti, la società iraniana nutre un profondo desiderio di un’apertura democratica e, inevitabilmente, di vedere la fine di un regime che li ha privati di una vita dignitosa.
Negli ultimi anni, la popolazione iraniana ha tentato più volte di rovesciare il regime degli ayatollah. I giovani iraniani hanno fatto e continuano a fare enormi sacrifici per la libertà della propria terra, sognando la caduta del regime khomeinista. È proprio questa caratteristica dell'Iran che lo distingue da situazioni come quelle dell'Iraq sotto Saddam Hussein o dell'Afghanistan sotto i Talebani. In altre parole, gli Stati Uniti sotto la guida di Donald Trump non avrebbero bisogno di intraprendere una nuova avventura militare, inviare decine di migliaia di soldati o spendere miliardi di dollari, come accaduto in Iraq e Afghanistan con risultati scarsi. Trump potrebbe invece scegliere di appoggiare i milioni di dissidenti iraniani, e sarebbero loro a porre fine alla disastrosa esperienza khomeinista nel loro paese. Un'opzione che né Obama nel 2009 né Biden nel 2022 hanno preso in considerazione, contribuendo, di fatto, alla sopravvivenza del regime islamico.
Reza Pahlavi, il principe ereditario dell'Iran e leader dell'opposizione democratica iraniana, ha inviato un messaggio a Donald Trump poche ore dopo la sua rielezione, scrivendo: "Nel Suo primo mandato, Lei si è schierato coraggiosamente con il popolo iraniano contro la Repubblica islamica, che minaccia non solo il Medio Oriente, ma anche il popolo americano con terrore, instabilità e caos. Ora ha l'opportunità di fare la storia e lasciare un'eredità di pace duratura, aiutando a porre fine a questa minaccia una volta per tutte. In questa missione, il popolo iraniano è il Suo miglior partner nella pace."
Ciò che il Principe Reza Pahlavi cerca di sottolineare è che, sebbene la politica di "massima pressione" del primo governo Trump – che ha effettivamente inflitto danni agli interessi economici del regime iraniano in un modo senza precedenti – sia stata un passo importante, da sola non sarà sufficiente. Accanto a questa strategia, è necessario che gli Stati Uniti, insieme ai governi europei, attuino una politica di "massimo supporto" al popolo iraniano.
Questo supporto non deve necessariamente assumere una forma militare, ma piuttosto un forte sostegno politico e diplomatico ai dissidenti iraniani che sia all'interno che all'esterno del Paese si oppongono agli ayatollah. Se accompagnato dall'implementazione rigorosa della politica di "massima pressione", tale approccio potrebbe contribuire a un rapido smantellamento del regime islamico.
Il regime iraniano ha sempre represso nel sangue le ribellioni dei giovani che, più volte, hanno osato sollevarsi per chiedere la libertà e la fine della politica di antioccidentalismo imposta dai mullah. Grazie ai suoi Pasdaran e Basiji, e in alcuni casi anche con l’impiego di miliziani libanesi di Hezbollah, che venivano portati in Iran tramite voli charter Teheran-Beirut operati dalle compagnie aeree controllate dai Pasdaran, il regime è riuscito a mantenere il suo dominio autoritario nel Paese. Tuttavia, questa egemonia potrebbe essere minata se il potere di repressione degli apparati dei mullah venisse indebolito. La Repubblica islamica rappresenta un sistema politico obsoleto, odiato dalla maggior parte della popolazione iraniana, e continua a sopravvivere solo grazie a due fattori cruciali: il petrolio iraniano e il pugno di ferro dei Pasdaran.
Se l’amministrazione Trump decidesse di affrontare definitivamente il problema di fondo del Medio Oriente, dovrà concentrarsi su queste due leve fondamentali che restano nelle mani degli ayatollah. Bloccare le esportazioni di petrolio sarebbe l'azione più semplice da intraprendere, considerando che l’amministrazione Trump ha già esperienza in merito. Nel 2018-2019, infatti, grazie alla politica di “massima pressione”, Trump era riuscito a ridurre quasi a zero le esportazioni di petrolio iraniano, dimostrando che una misura simile può essere attuata con successo. Lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto riattivando le sanzioni petrolifere che l’amministrazione Biden-Harris ha scelto di non applicare, consentendo così agli ayatollah di riprendere la vendita di petrolio sopra il milione di barili al giorno, garantendo un flusso di cassa costante negli ultimi quattro anni.
Sarebbe quasi superfluo sottolineare che queste risorse non vengono mai impiegate per il progresso dell’Iran o il benessere dei suoi cittadini, ma sono utilizzate come armi e razzi nelle mani delle milizie fedeli al regime. Proprio con queste risorse il regime mantiene attivo il proprio apparato repressivo. Non tutti gli ufficiali dei Pasdaran supportano i mullah per pura devozione religiosa; in molti casi, sono il denaro e gli stipendi a svolgere un ruolo fondamentale. Sebbene la priorità del regime sia sempre stata il rafforzamento della sua macchina repressiva e militare, senza risorse finanziarie, questa missione diventa difficile, se non impossibile. Quando i petrodollari finiranno, sarà interessante vedere quanto potrà ancora resistere il pugno di ferro dei mullah.
Un altro aiuto determinante che gli Stati Uniti potrebbero offrire ai dissidenti iraniani per contrastare gli sforzi del regime nel soffocare le sollevazioni popolari riguarda la tecnologia e la comunicazione. Il regime iraniano ha infatti un controllo pressoché totale sulle vie di comunicazione, incluso l'accesso a internet. Questa dominanza consente agli ayatollah di chiudere virtualmente le porte dell'Iran ai giovani del paese, soffocando le loro voci e le loro istanze, mentre le piazze si riempiono di sangue senza che il mondo ne venga a conoscenza. Durante le fasi rivoluzionarie del 2017, 2019 e 2022, il primo passo del regime per affrontare le proteste è stato sempre il blocco totale di internet per 85 milioni di iraniani. Tuttavia, questa arma potrebbe diventare inefficace se gli Stati Uniti decidessero di fornire un accesso a internet satellitare all'Iran. Questa mossa potrebbe essere attuata dall'amministrazione Trump, dato che l'azienda che possiede la tecnologia satellitare è di proprietà di Elon Musk, uno dei principali alleati di Trump nelle elezioni del 5 novembre, e che probabilmente ricoprirà un ruolo di primo piano nell'amministrazione.
Trump dispone di diverse leve da giocare contro il regime iraniano, e se decidesse di spingersi oltre le politiche consuete e mirare alla caduta del regime, sostenendo i dissidenti iraniani all'interno del paese, gli ostacoli non sarebbero insormontabili. È importante ricordare che Trump avrà al suo fianco anche Benjamin Netanyahu e la potenza militare di Israele, che dopo gli attacchi dello scorso 26 ottobre, che hanno distrutto la difesa antiaerea iraniana, ora ha libero accesso allo spazio aereo iraniano e può mirare a qualsiasi obiettivo. Questa opzione, un tempo era fuori portata, non tanto per la forza militare del regime degli ayatollah, ma per il tabù internazionale dietro il quale si nascondeva Ali Khamenei, il leader della Repubblica islamica. Dopo il 7 ottobre, quel tabù è venuto meno, e Israele ha dimostrato di non esitare a eliminare qualsiasi figura considerata una minaccia alla propria sicurezza. Si parla ora esplicitamente dell’eliminazione di Khamenei – il quale è comunque un Capo di Stato – e degli alti comandanti dei Pasdaran. Questo rappresenta un cambiamento fondamentale che distingue il contesto attuale da quello che Trump doveva affrontare nel periodo 2016-2020.
Nel 2001, quando l’amministrazione Bush decise di abbattere il regime dei Talebani in Afghanistan con un’invasione militare, il principale ostacolo rimase, e continuò a esserlo fino alla caduta di Kabul nel 2021, la mancanza di un’alternativa concreta per il futuro dell’Afghanistan. Sebbene gli Stati Uniti abbiano rovesciato i Talebani, non sono riusciti a sostituirli con un sistema che rispecchiasse davvero la cultura e le esigenze degli afghani. Un problema simile si presentò anche in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein operata sempre mediante l’uso della forza. In quel caso, l’amministrazione americana, infatti, “presentò” Ahmad Chalabi come la figura per guidare l’Iraq, ma egli era sconosciuto alla maggior parte degli iracheni e non aveva l’autorità necessaria per governare il paese durante la transizione. L’esperimento di esportare la democrazia in questi due paesi si rivelò un fallimento perché gli Stati Uniti non tennero conto, o non hanno voluto di tener conto - soprattutto nel caso dell’Afghanistan - delle peculiarità culturali e tradizionali di queste nazioni, tentando invece una semplice e fallimentare “mediorientalizzazione” della democrazia americana. I sistemi politici impiantati in Iraq e Afghanistan finirono per essere i fattori principali che portarono alla nascita dell'ISIS in Iraq e al ritorno dei Talebani in Afghanistan.
Il caso dell'Iran è sostanzialmente diverso sotto molti aspetti. L'Iran è una nazione con una ricca tradizione politica e culturale, e gli iraniani vantano secoli di storia come popolo unito. A differenza di altri paesi della regione, l'Iran conserva il ricordo di essere stato uno stato laico e moderno, con un governo centrale forte che ha svolto un ruolo cruciale nel promuovere il progresso sociale ed economico. Questo patrimonio, che distingue l'Iran da altre realtà mediorientali, rende la sua situazione unica e particolare nel contesto delle dinamiche regionali, ed è una risorsa che potrà rivelarsi cruciale nel momento del crollo del regime.
Nessuno deve creare un’alternativa per l’Iran. L'ostacolo principale che gli Stati Uniti hanno affrontato in Iraq e Afghanistan sembra inesistente nel caso iraniano. La figura di Reza Pahlavi si presenta come una risorsa fondamentale per il futuro del Paese, per la fase di transizione e per il processo di democratizzazione dell’Iran. Sembra che anche il presidente Trump riconosca questa realtà. J.D. Vance, vice di Trump, e Marco Rubio, il senatore della Florida che probabilmente ricoprirà il ruolo di segretario di Stato, sono entrambi figure vicine al Principe ereditario, il quale gode di un ampio supporto dentro il paese e soprattutto tra le nuove generazioni iraniane. Questi giovani, nonostante i rischi enormi, continuano a gridare il suo nome nelle strade, sfidando il regime e mettendo in gioco la loro vita per il cambiamento.
La strategia dell’amministrazione Trump nei confronti del regime iraniano e per affrontare le sfide mediorientali, nonché le sue intenzioni di porre fine al conflitto nella regione, rimarranno un segreto almeno fino ai primi 100 giorni del suo mandato. Tuttavia, ciò che è certo è che Donald Trump e il suo team avranno a disposizione un’opportunità senza precedenti per favorire il crollo del regime degli ayatollah e, di conseguenza, promuovere la democratizzazione dell'Iran, aprendo la strada a una nuova era per l'intero Medio Oriente. Rimane da vedere se Trump saprà cogliere questa opportunità per diventare colui che "fa la storia e lascia un’eredità di pace duratura".
Di Amirsalar Khosravi.