Il dilemma corti internazionali, strumento di giustizia o dei potenti? La sovranità nazionale complica l’idea di sistema applicabile a tutti

Con le recenti azioni nei confronti di Israele, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e anche la Corte Penale Internazionale (ICC) hanno dato una dimostrazione di equilibrio

Con le recenti azioni nei confronti di Israele, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e anche la Corte Penale Internazionale (ICC) hanno dato una dimostrazione di equilibrio. La richiesta di un mandato di arresto per il Primo Ministro Netanyahu mostra che l’ICC non guarda ai crimini solo di una parte; mentre “l’ordine” della ICJ a Israele di fermare il genocidio in atto a Gaza è un atto che sfida la visione comune in Occidente, che limita le critiche a Israele affermando che ha comunque il diritto di difendersi a livello militare.

Si tratta di azioni controverse. Molti leader politici respingono l’accusa di genocidio, come ha fatto il presidente americano Joe Biden. E l’equiparazione di fatto tra Netanyahu e i capi di Hamas ha mandato su tutte le furie i sostenitori di Israele. Ma il punto interessante è che queste corti sembrano uscite dalla sindrome della “giustizia dei vincitori”, in cui per decenni potevano essere viste come strumenti dei potenti paesi occidentali contro quelli che non fanno parte del club dei grandi della Terra.

Se guardiamo, infatti, l’elenco delle cause portate avanti dalla Corte Penale negli anni, i soggetti vengono quasi tutti da paesi di quello che oggi si definisce il “Sud globale”: la Liberia, la Cambogia, la Siria, il Sudan, e un buon numero di militari della Serbia, paese alla periferia dell’Europa, ma comunque oggetto di attacchi militari da parte della NATO negli anni Novanta.

Per alcuni, le corti multilaterali sono state semplicemente strumenti nelle mani del potere occidentale. Lo standard dei “diritti umani” spesso si interseca con gli interessi geopolitici ed economici: quando un governo non raggiunge i livelli di libertà definiti dagli organismi multilaterali, l’opposizione viene alimentata con fondi e armamenti occidentali. Tuttavia, spesso i ribelli sono tutt’altro che democratici. Gli esempi sono numerosi: dai mujaheddin nel Medio Oriente allargato, all’UCK nei Balcani, ai tanti gruppi di ribelli in Africa e alla destra neonazista in Ucraina.

Quest’ultimo è un esempio scomodo e anche istruttivo. Le formazioni estremiste ucraine, come il Battaglione Azov, erano considerate inaccettabili dagli Stati Uniti e dai paesi europei fino a pochi anni fa. Ma ora sono tra quelli che combattono per la libertà. Qui il criterio non sembra essere lo stesso applicato a Gaza: la Russia è considerata l’aggressore, quindi viene accusata di genocidio, mentre si chiude un occhio di fronte alle azioni delle forze di Kiev, che hanno la simpatia dell’Occidente.

La domanda che emerge può sembrare cinica, ma va posta: i crimini vengono commessi solo da parte dei “cattivi” secondo gli organismi internazionali? Fino a che punto si possono giustificare azioni che in un altro contesto sarebbero considerate criminali, quando avvengono ai fini dell’autodifesa?

Non è una domanda retorica, ma invece un dilemma che fa capire quanto sia difficile creare un sistema efficace di giustizia internazionale. L’obiettivo sarebbe di giudicare tutti con lo stesso metro, ma in realtà è praticamente impossibile evitare le considerazioni politiche.

Soprattutto, c’è il tema della sovranità nazionale. Israele non è membro della Corte Penale Internazionale, e non lo sono neanche gli Stati Uniti e la Russia. Dunque, i paesi più potenti, che hanno dominato gli affari militari nel mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale, non sono disponibili a farsi giudicare. Per loro, le azioni delle corti sono utili solo quando avvengono dalla parte “giusta”. Può sembrare ipocrisia, ma riflette la realtà di come funziona la politica internazionale: chi è in grado di difendersi lo fa a livello militare, ma anche a livello politico, e nessuno può imporre decisioni su di loro dall’esterno.

di Andrew Spannaus