Dopo il crollo del ponte di Baltimora è ora di riflettere sul commercio globale: come cambiare un sistema frammentato, poco efficiente e pericoloso
Negli ultimi decenni la ricerca dei bassi costi ha prevalso sulla sicurezza del lavoro, dell'ambiente e anche sulla sicurezza fisica delle infrastrutture marittime
Ridurre il commercio globale. Sembra un'assurdità, contro quanto dicono gli economisti riguardo alla creazione di ricchezza. Più ci sono scambi di beni, meglio va per tutti, è stato il mantra della globalizzazione. Eppure negli ultimi anni è iniziato un cambiamento, una richiesta di decoupling dalla Cina, o perlomeno di "derisking" per ridurre la dipendenza dalla produzione in Asia, insieme a una ripresa della politica industriale nel mondo occidentale.
Cosa c'entra l'incidente di Baltimora, dove una nave cargo ha fatto crollare il Francis Scott Key Bridge lo scorso 26 marzo? È stata una fatalità, pare, un problema meccanico alla nave che ha causato la perdita di potenza nel momento sbagliato, e troppo tardi per evitare la collisione con i piloni del grande ponte. Le indagini ci diranno di più sulle cause, ma certamente si tratta di un singolo caso tra le tante navi che utilizzano il porto di Baltimora, per fortuna il primo incidente di questo tipo, vero?
Non proprio. Le collisioni tra le navi e i ponti non sono così rare. Ci sono state 35 tra il 1960 e il 2015, provocando la morte di 243 persone, di cui 18 negli Stati Uniti. Evidentemente un problema esiste. E si conosce bene anche il rimedio: costruire delle barriere adeguate intorno ai piloni, con il cemento e i sassi, e far accompagnare le navi dai rimorchiatori nelle vicinanze del porto dove c'è traffico abbondante e anche strutture civili. Entrambe queste precauzioni sono mancate a Baltimora, ponendo domande importanti sul livello generale di sicurezza dei sistemi lì presenti.
Inoltre, bisogna considerare la crescita delle navi, ormai enormi per trasportare decine di migliaia di container. Tutto deve essere spostato da una parte del mondo all'altra, non solo prodotti finiti ma in molti casi componenti all'interno della stessa filiera, risultato di un sistema economico frammentato in cui per anni si è cercato di ridurre i costi attraverso la delocalizzazione.
Ma ha ancora senso un modello di questo tipo? Ci sono tre grandi fattori che stanno spingendo cambiamenti nel commercio mondiale: 1. il populismo politico, con la reazione alla deindustrializzazione dell'Occidente e alle conseguenze socioeconomiche per la classe media; 2. la pandemia, che ha evidenziato l'importanza di non dipendere da filiere lunghe per prodotti essenziali; 3. la competizione geopolitica, ovvero il riconoscimento che cedere il ruolo di produttore e innovatore ad altri paesi comporta anche la perdita di forza politica.
È indubbio che il commercio porti benefici, e anche che interrompere i rapporti economici possa provocare cambiamenti non facili da gestire. Ma ciò non toglie la necessità di una rimodulazione dei flussi commerciali per affrontare i grandi errori degli ultimi decenni, in cui la ricerca dei bassi costi - e quindi dei profitti per gli azionisti - ha prevalso sulla sicurezza del lavoro, dell'ambiente e anche sulla sicurezza fisica delle infrastrutture marittime.
Di Andrew Spannaus