Diritti umani, la libertà d'espressione non può essere a senso unico

E' facile criticare gli abusi dei paesi nemici, ma il diritto di critica deve valere anche nei casi scomodi come quello di Israele

La crescita delle critiche a Israele per la guerra a Gaza pone una grande sfida per le democrazie liberali occidentali. Se negli ultimi anni è stato facile accusare paesi come la Russia e la Cina di essere i nemici dei diritti umani, rafforzando una narrazione geopolitica di democrazie contro autocrazie, ora bisogna fare i conti con una situazione più scomoda: un paese alleato che conduce una guerra sempre più difficile da difendere, uccidendo decine di migliaia di civili e attuando un blocco che rischia di far morire di fame molti di più.

Nell'Occidente, l'opposizione alle azioni dei governi israeliani guidati da Benjamin Netanyahu era rimasta in sordina per anni, soprattutto negli Stati Uniti. Gruppi come AIPAC e Christians United for Israel (CUFI) riuscivano ad esercitare grandi pressioni sulla politica a Washington, bloccando ogni tentativo di cambiare direzione nel nome di combattere l'antisemitismo.

Oggi, si cerca di utilizzare lo stesso metodo per stigmatizzare chi accusa Israele di crimini di guerra, bollando affermazioni simili come un rigurgito dell'atteggiamento del passato che portò all'Olocausto. Si può dibattere sulla definizione di genocidio, come avviene di fronte alla Corte penale internazionale, ma non affermare che le accuse siano basate sul razzismo: tra l'altro, vengono fatte da molti ebrei stessi, dentro e fuori Israele.

Nel tentativo di frenare le critiche, si ricorrono ai vecchi trucchi, come si è visto con le polemiche in merito alle proteste universitarie negli Stati Uniti lo scorso settembre. Quando le presidenti di tre grandi università americane – Harvard, University of Pennsylvania e MIT – hanno risposto alle domande della deputata repubblicana Elise Stefanik al Congresso Usa, sono cadute nella solita trappola, costruita ad arte: definire le critiche ad Israele come l'equivalente di un appello al genocidio contro gli ebrei, senza considerarne i meriti.

Opporsi all'uccisione di migliaia di civili non significa essere pro-Hamas, ma preoccuparsi dei diritti di tutti. E in realtà anche chi appoggia la resistenza violenta ad Israele ha il diritto di esprimere la propria posizione. In base alla legge americana, sostenere l'Intifada, se piaccia o meno ai politici e ai media, è una forma di "discorso protetto".

D'altronde, ci sono numerosi politici che sostengono un'azione di guerra per radere al suolo Gaza, così come altri che affermano che bisogna uccidere il maggior numero di russi possibile perché sono razzisti contro l'Ucraina. Non si può permettere le opinioni politiche solo in una direzione.

Nel caso delle grandi università americane c'è una bella dose di ipocrisia, visto che negli ultimi anni hanno spesso adottato politiche di censura nei confronti di coloro che esprimono posizioni non progressiste su temi culturali, come LGBT e razzismo. Si meritano le critiche, perché hanno dimenticato i valori di tolleranza che dovrebbero promuovere.

Tuttavia, oggi il rischio è evidente: stabilire una gerarchia tra i diritti, che valgono per gli amici ma non per i nemici. La libertà d'espressione si deve riconoscere in tutte le direzioni, anche per le opinioni che non rientrano nella narrazione approvata dalle istituzioni politiche.