La nostra "Soluzione Finale" per il conflitto in Palestina e liberare Gaza
Con un pizzico di creatività e visione storica, ecco la ricetta per risolvere il conflitto in medioriente
Se è vero come è vero che Bibi "il macellaio" Netanyahu è riuscito nell'ardua impresa di tramutare Israele da vittima a carnefice, facendo passare completamente in secondo piano il fatto che Hamas abbia tra i suoi obbiettivi il progetto di annientare lo Stato ebraico, è anche vero che dobbiamo chiederci se abbia ancora un senso continuare con questa storia dello Stato di Israele: nata male e cresciuta peggio.
I recenti sviluppi ci costringono a parlare il linguaggio della verità. Perché è nato lo Stato di Israele? Per due motivi, uno ufficiale, uno ufficioso.
Il primo motivo è noto a tutti. Alla fine del secondo conflitto mondiale, nel 1947, per fermare i continui scontri tra ebrei e palestinesi, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato un piano di ripartizione dei territori che prevedeva la nascita di due Stati, uno ebraico e uno arabo. A suo tempo qualcuno, non a torto, definì questa decisione salomonica, anche se la storia ci ha insegnato che il parto riuscì solo a metà.
Il secondo motivo, che è quello dietro al quale si nasconde questa grande generosità internazionale, è puramente politico. In parole povere serviva uno Stato cuscinetto in grado di svolgere due mansioni: 1) essere un cane da guardia contro gli arabi; 2) avere un occhio vigile sui giacimenti di petrolio.
Oltre alla terra, ovviamente i Paesi occidentali hanno fornito agli ebrei altri doni preziosi, ovvero finanziamenti a fondo perduto e armi come se non ci fosse un domani, questo senza dimenticare che anche i palestinesi ricevettero soldi su soldi, con l'unica differenza che non li investirono in infrattrutture eccetera, ma in armi, comprate un po' ovunque, tutte destinate alla liberazione delle terre reclamate.
Dal canto suo, Tel Aviv ha sempre portato avanti con diligenza i suoi impegni, risolvendo senza clamori i vari conflitti che si sono susseguiti nei decenni, a partire dalla Guerra dei 6 Giorni chiusa con un'operazione militare pulita e senza gravi conseguenze.
Anche politicamente Israele se l'é cavata in modo egregio, diventando un esempio per il mondo, prima con Yitzhak Rabin, firmatario degli accordi di Oslo nel 1994 con Yaser Arafat (puntualmente disattesi in seguito proprio da Israele), poi con Ariel Sharon, e infine con Shimon Peres, quest'ultimo insignito addirittura con il Nobel per la pace. Ecco, diciamo che politici di grandissima statura a Tel Aviv ce ne sono stati.
A rovinare tanti progressi diplomatici, ci ha pensato lui con la sua cricca, quel Netanyahu che già nel suo primo breve mandato tra il 1996 e il 1999 non aveva lasciato chissà che ricordi. Tra processi per corruzione e una certa inclinazione liberticida e destroide, diciamo che Bibi non ha mai brillato per sapienza, questo almeno fino al 7 ottobre 2023.
Pur essendo ancora molti i misteri irrisolti su come sia stato possibile quell'attentato, Netanyahu ha avviato una sua personale Guerra Santa, approfittando del fattaccio per evitare le condanne per corruzione pronte sulle scrivanie dei giudici, e cercando l'alloro di memoria Augustea in qualità di nuovo eroe della Patria. E se inizialmente il problema era il semplice recupero degli ostaggi, con il tempo la lotta ha cambiato forma, diventando una carneficina in nome dell'assorbimento degli attuali territori palestinesi, con tanto di Torah alla mano e profezie in bocca.
A nulla sono servite le proteste di milioni di ebrei contro Netanyahu e contro questo sterminio, voci soffocate da una propaganda bugiarda fino al midollo, ma denudata dalle immagini delle azioni criminali compiute dall'IDF e dalla propaganda nazistoide di politici che hanno evocato bomba atomica e deportazioni, tutti elementi che hanno nutrito un nuovo odio antisemita, forse più florido e trasversale dei tempi di Hitler, fatto sta che le celebrazioni del 27 gennaio sono state blindate.
Ciò premesso, tornando in capo alla questione, è giusto porsi una domanda: ha senso continuare ad avallare l'idea di uno Stato di Israele? I dubbi sono molteplici. In fin dei conti, strategicamente la posizione di Tel Aviv ha perso ogni appeal, sia perché è scemato l'interesse sul petrolio, sia perché militarmente l'occidente è talmente avanzato da poter tenere a bada gli arabi anche a distanza.
Ricordando le parole di Mieli che, alcuni giorni dopo il 7 ottobre disse, facendo una sintesi, che con quell'avvenimento gli ebrei erano rimasti simpatici al mondo per cinque lunghissimi minuti, dobbiamo fare i conti con la verità e chiederci come risolvere il problema. La soluzione, ironicamente finale come scritto in capo al presente editoriale, è più semplice del previsto, anzi offre tre opzioni:
A) voltare le spalle dall'altro lato e lasciarli massacrare a vicenda, interrompendo ogni aiuto militare e umanitario, ma sarebbe questa una scelta inaccettabile finanche per il peggiore degli uomini;
B) accogliendo l'idea del Ministro per la Sicurezza, Ben Gvir, che chiede la deportazione coatta dei civili palestinesi fuori dai territori occupati (e non lo chiede solo lui), l'occidente dovrebbe smattellare Israele, prendere la popolazione e distribuirla in giro per il mondo, ovviamente senza offrirgli una terra così da evitare nuovi conflitti con gli occupati di turno. A quel punto, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite potrebbe traformare l'attuale Israele in una free zone, dichiarando Gerusalemme citta del mondo e piazzando stabilmente i soldati: tutto si risolverebbe tra baci, abbracci, fiori e shalom;
C) prendere tutti gli israeliani e tutti i palestinesi, trasferirli in Madagascar e farli diventare negri. Tanto si sa, dei negri che si ammazzano fra loro non gliene frega niente a nessuno.