Armi all’Azerbaigian, chiesti jet e fucili per 2 mld € e Crosetto cede, riscritte regole per armare paese in guerra

Il Ministero della Difesa spinge per la vendita di 2 miliardi di armamenti all'Azerbaijan, ma gli Esteri, attraverso l'Uama, congelano l'affare. Dubbi per lo stato di guerra di Baku ed i rapporti Usa con l'Armenia

24 ore, tanto è durata l'offensiva dell'Azerbaijan in Nagorno-Karabakh. Abbastanza per assicurare, apparentemente, a Baku il controllo di una regione del proprio Paese da anni scossa da fortissime spinte indipendentiste, motivate dalla presenza di una popolazione etnicamente e culturalmente armena che guarda a Erevan come patria ancestrale verso cui muovere. Dopo la guerra del 2020 contro l'Armenia per il controllo del territorio, conclusa con l'intervento di una forza di peacekeeping russa a monitorare e garantire il termine delle ostilità tra i due Paesi, l'operazione di questi giorni sembrerebbe aver assicurato agli azeri il raggiungimento di uno dei principali obbiettivi strategici tesi al rafforzamento della propria proiezione nella regione caucasica. Un rafforzamento applaudito da Ankara e Tel Aviv, principali sponsor dell'Azerbaijan, ma che mette un terzo Paese, le cui relazioni con Baku sono particolarmente fitte, in serio imbarazzo.

I rapporti tra Italia e Azerbaijan, definiti dal commercio di energia ed armi

Per l'Italia, che dell'Azerbaijan ha fatto negli ultimi anni la propria testa di ponte nel Caucaso, un conflitto visto con sottile sospetto da Washington significa l'apertura di un bivio nel bilaterale con Baku. Ad oggi Roma si presenta indecisa, un'indecisione nata nel 2020 e cresciuta fino ad oggi, nel definire i propri rapporti con il Paese islamico, oscillante tra l'appoggio semi incondizionato (sul modello turco e israeliano) e la condanna di un'occupazione militare secondo Erevan anticipatrice di un genocidio etnico. Un pendolo, sostenuto e mosso da contratti miliardari nel settore degli armamenti e dall'origine azera del 10% del gas importato in Italia.

Il gas azero rappresenta il 10% dell'import italiano

L'Italia partecipa al "gioco caucasico" in maniera più indiretta rispetto ad altri Paesi, ma non per questo i suoi interessi nell'area sono considerabili secondari. Innanzitutto dal punto di vista energetico. Con lo scoppio della guerra in Ucraina e la successiva ondata di sanzioni che hanno investito la Russia, l'Italia si è all'improvviso ritrovata nella condizione di dover assicurarsi nuove fonti energetiche per sostenere il Paese.

Il governo Meloni, fin dal suo insediamento, ha quindi condotto la politica estera nel solco del cosiddetto "Piano Mattei", ambizioso progetto avente l'obbiettivo di diversificare le importazioni energetiche sufficientemente da non essere drasticamente dipendenti da un solo fornitore. Oltre a numerosi accordi bilaterali in Nord Africa, tassello fondamentale del progetto è l'Azerbaijan, il cui gas raggiunge la Penisola attraverso la Tap. Nel febbraio di quest'anno, quindi, il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, fedelissimo di Meloni, era a Baku per discutere il raddoppiamento delle forniture: l'obbiettivo è portare la capacità del gasdotto a 20 miliardi di metri cubi l'anno entro il 2027.

Numeri affatto ignorabili tanto da Roma quanto da Baku, per la quale, all'attuale tasso di estrazione, il mercato italiano rappresenta ben il 50% delle proprie esportazioni energetiche. Per la Penisola, invece, il gas che giunge in Puglia dal Caucaso soddisfa il 10% della richiesta nazionale.

Lo sviluppo dei rapporti di forza nel Caucaso che cambia la prospettiva di Roma sulla regione

Se all'Italia le relazioni con la Repubblica caucasica sono quindi fonte approvvigionamento energetico, il dossier di maggiore interesse, quello su cui ha individuato in Roma una potenziale sponda, è per Baku quello della sicurezza. L'Azerbaijan è un Paese schiavo della sua posizione geografica, che per secoli ne ha fatto terra in cui consumare l'attrito tra imperi diversi: russi, inglesi, ottomani, persiani. Violentemente pacificato, come diversi Paesi limitrofi, in epoca sovietica, dagli anni '90 vive di costanti tensioni con i vicini armeni. Ad oggi l'Azerbaijan si trova quindi sostenuto da turchi ed israeliani, che mirano al suo rafforzamento in funzione anti iraniana, mentre l'Armenia avrebbe quali patron di spicco Teheran e Mosca, interessate al contenimento turco nel Caucaso. Questo, almeno, fino a questa estate.

Nelle ultime settimane, infatti, gli Stati Uniti sembrerebbero aver "preso a cuore" le sorti armene (con sommo sbigottimento degli alleati turchi e israeliani) dando l'avvio ad alcuni timidi abboccamenti con Erevan, ad oggi coronati nella piccola esercitazione militare congiunta Partner Eagle, conclusa il 20 settembre di quest'anno. Vari i motivi dell'interesse americano a sostenere l'Armenia: un messaggio alle alleate Ankara e Tel Aviv, sempre più inclini a giocare da "battitrici libere" in levante e per questo da "rimettere in riga"; un modo per entrare come ago della bilancia in un dossier fino a ieri considerato fondamentalmente come sottoposto principalmente all'influenza russa; una risposta alle richieste della stessa Erevan che, delusa dal mediocre sostegno ai propri interessi garantito da Mosca contro Baku, si starebbe ora guardando attorno alla ricerca di nuovi cavalli su cui puntare. 

L'attuale stato delle cose spezza il governo sull'approccio al dossier caucasico

In questo, aggrovigliato, stato delle cose, si inseriscono quindi i rapporti italiani con l'Azerbaijan. All'importazione di gas azero, secondo quanto inizialmente previsto dalla strategia diplomatica di Roma, si sarebbe accompagnata l'esportazione verso Baku di ciò di cui la Repubblica caucasica ha maggiore necessità: materiale per la sicurezza. Una lunga, lunghissima lista della spesa, comprendente jet d'addestramento (convertibili in cacciabombardieri), artiglieria semovente (terrestre ed antiaerea), missili terra-aria, aerei per il trasporto truppe e di materiali, sottomarini, oltreché un quantitativo indefinito di armi leggere ed equipaggiamento vario. Un affare dal valore stimato di circa 2 miliardi di euro. Non poca cosa per un Paese il cui Pil non raggiunge i 55 miliardi di dollari.

Un affare che tuttavia, si trova al momento congelato. Nonostante il favore del Ministro della Difesa Crosetto alla vendita degli armamenti in questione a Baku, al momento la mancata autorizzazione dell'Uama (ufficio che arbitra ed autorizza le esportazioni di materiale bellico) ha interrotto l'esportazione. Si assiste quindi alla manifestazione plastica del dilemma dell'esecutivo di cui sopra: da una parte il Ministero della Difesa, favorevole a rafforzare l'amicizia con Baku non solo dal punto di vista energetico, ma anche militare; dall'altra invece, il Ministero degli Esteri, da cui l'Uama dipende, a guida Tajani, apparentemente meno incline a legarsi nel settore della sicurezza con un Paese considerabile sotto certi punti di vista in guerra e contro cui, soprattutto, è schierata un'Armenia sempre più vicina a Washington.