Bailan, il rantolo dei giovani cinesi che non sanno più né vivere né morire: esattamente come i nostri

Il subcontinente asiatico dopo una cavalcata lunga un quarto di secolo ha superato ogni aspettativa ma al prezzo di occidentalizzarsi: nelle aspettative, nelle debolezze, nella noia. E adesso, non diversamente come in Europa e in Italia, nessuno sa come scuotere i giovani, come motivarli.

In Cina tornai l'ultima volta un quarto di secolo fa, 1998 per la precisione, e la Cina era tutta diversa, si preparava alla grande ricorsa: “Presto vi faremo ricordare chi siamo”. Visitavo le fabbriche della prima informatica, ancora quei computer pesanti, quei componenti che sembrano definitivi ed erano il solito istante di una tecnologia forsennata, e c'erano ragazzini e fanciulle chini al loro posto, in ambienti per noi soffocanti, invivibili, per loro il massimo della vita possibile, uno status symbol raggiunto dopo 3 giorni di treno e innumerevoli selezioni. Qualcosa da mostrare agli amici, ricevendone incredula invidia. Niente sindacati, niente pause o straordinari: lavoravano e dormivano, mangiavano qualcosa, senza uscire dalla fabbrica concentrazionaria, e lavoravano. Siccome era primavera, c'erano i noccioli in fiore e nelle rare pause gli amori sbocciati all'ombra dei semiconduttori potevano manifestarsi: un sorriso, un fugace sfiorarsi della mano, e di nuovo al proprio posto. “Non vi importa dei diritti umani?”. “Voi fate presto a parlare: ma la Cina sta crescendo, cresce grazie al nostro lavoro, e ve ne accorgerete”. Io occidentale consapevole inorridivo educatamente, poi mi portarono nelle campagne oltre Guanghzou, che facevano sfigurare anche quelle africane, c'era gente che giocava a biliardo lungo la camionabile, ogni tanto un bus antidiluviano, scassato da non capire come potesse farcela ad arrancare ancora, suonava, un clacson da cornacchia alla fine, e spostavano il biliardo. E a me veniva in mente la canzone di Lucio Battisti, America Latina, con le vecchie pubblicità “bevi Coca-Cola”, uno squallore talmente fondo da diventare seducente. E allora non inorridivo più e capivo cosa intendessero i miei giovani amici: tutto, ma non quelle campagne dove neppure Dio oserebbe scendere.

La Cina è stata di parola, la sua cavalcata trionfale, inarrestabile. Venticinque anni dopo, è la prima potenza commerciale, non ancora militare ma probabilmente tecnologica e condiziona l'intero pianeta, i suoi equilibri precari, le sue guerre. Anni, cicli di crescita a due cifre, quindi un rallentamento fisiologico, la ripresa, forse effimera, sotto al Covid che ha portato affari copiosi e lucrosi ma anche tensioni e insofferenze, ribellioni sedate con la forza dal Partito, dal presidente a vita Xi che è un maniaco della tolleranza zero anche col virus, da regolare con metodi dittatoriali: basta uno starnuto, e lui chiude megalopoli da quindici, venti milioni di persone. E quando chiude, chiude sul serio, chiude completamente.

Ma neanche i dittatori possono arginare il mare e neanche loro sanno valutare la portata delle loro decisioni, le conseguenze immediate, gli effetti a medio e lungo termine. Oggi la Cina può vantarsi d'aver strappato alle campagne, con la loro povertà abissale, oltre 500 milioni di persone; ma la sua popolazione invecchia, la natalità rallenta, l'economia stenta, gira intorno al 2,5% quando le previsioni erano del doppio e i lungi periodi di lockdown integrale hanno originato sconforto, depressione, senso di rinuncia. Esattamente come da noi. Sta facendo il giro del mondo la notizia del ripiegamento del colossale subcontinente asiatico, particolarmente nelle sue fasce giovanili, e c'è una espressione che racchiude tutto: “Sono in Bailan”. Cioè sto marcendo, mi sto consumando e non faccio niente per reagire. Dal tirare avanti, come vien viene, già segnalato dalle università, al Bailan, all'appassire nell'autocompiacimento. Un lavoro? Un matrimonio? Una ambizione? Bailan, non mi riguarda, io sto qua e mi decompongo, quello che succede, succede.

Che ne è di quei ragazzi dal sorriso timido e l'ambizione disperata, che non contavano le ore negli scantinati, che non volevano sentir parlare di diritti umani ed erano esaltati all'idea di “rifare grande la Cina”? Degli studenti accaniti, che superavano test quasi inaccessibili (lo racconta, in diversi libri recenti, Federico Rampini, che in Cina ha vissuto a lungo), che si nutrivano di studio, studio e ancora studio? E anche quelli vedevo dalla finestra del mio hotel: la mattina presto, i dieci minuti di ginnastica, simili a parate militari, poi tutti svaniti e li indovinavi chini sui banchi senza contare la fatica. Che è successo?

È successo che hanno incontrato il benessere. Si sono imborghesiti, hanno conosciuto un altro mondo, fatto di cose belle ed hanno potuto permettersele. Hanno anche assorbito le nevrosi dei workalcholics, quel lavorare per guadagnare senza che basti mai, la protesi elettronica costantemente accesa, “pienamente operativi acca 24” come dicono i milanesi rimbecilliti. E non gli è bastato più, e sono scoppiati. Hanno cominciato a pensare ai diritti civili e umani, forse proprio quando il regime glieli ha negati nel modo più feroce e più plateale. Sono cresciuti, diventati genitori e i loro figli non hanno conosciuto la miseria atroce dei biliardi piantati in mezzo alle camionabili nel mezzo di nulla. Il Partito Comunista non ha argine, ma loro si sono occidentalizzati. E adesso neppure Xi è più sicuro come prima. Rivolte e sobillazioni nelle campagne c'erano sempre state, e il Partito le reprimeva al modo comunista: le delazioni e poi le purghe, il tabula rasa. Come avvenuto anche coi pochi medici o blogger dissidenti che, sul Covid, spifferavano una verità assai meno edificante per la dittatura, e assai più preoccupante per il pianeta. Ma alla fine il senso di malcontento, di esasperazione ha preso a serpeggiare anche nelle gigalopoli e la faccenda si è fatta più complicata. Da cui il senso di Xi per il lockdown, che viene sempre utile a reprimere qualsiasi focolaio di insofferenza. Fatte le debite proporzioni, esattamente come da noi.

E adesso, proprio come nella vecchia Italia sfatta e marcita, i giovani dell'immensa Cina si lasciano vivere o morire. Bailan, lasciatemi corrodere. Qui abbiamo la sindrome del giovane vittimista, sempre annoiato, sempre stanco, oppresso dal suo stesso tedio e da un mondo che non sa più assecondarne le pretese, sempre più ludiche, sempre più lunari. Quella pischella sedicenne, “militante gender da nove anni”, cioè da quando ne aveva 7, che si filmava, con molto impegno, mentre urlava e strabuzzava gli occhi all'idea della vittoria di Giorgia Meloni che la avrebbe subito deportata. Come i depressi che non sanno reggere il successo evaporato e non trovano di meglio che rinchiudersi nella casa di carta del Grande Fratello dove altri depressi, ma incarogniti, lo torturano: e i più cattivi e meschini sono omosessuali dichiarati, transessuali, ciò che davvero ci rende tutti uguali, tutti frutti della medesima malapianta è la cattiveria, la logica del branco, poi definirsi migliori in quanto donne o gender è la solita impostura che lascia il tempo che trova.

La politica italiana, per arginare ma soprattutto sfruttare il male di vivere, molliccio, marcescente, dei giovani ripiegati, i giovani-larve come nell' “Orrore di vivere” di Antonio Rezza, ha escogitato il reddito di cittadinanza, una truffa da dieci miliardi l'anno che, specie al sud, finiscono nel controllo della criminalità organizzata che poi li smista a piacere con la complicità di istituzioni e partiti. In Cina non ci sono ancora arrivati, ma neppure una dittatura spietata come quella sa bene cosa, come fare per arrestare il processo di putrefazione giovanile. Fare lavorare chi resta sul letto, in posizione fetale? Facile a dirsi! Ma la verità è che i naturali, fisiologici processi della società del benessere, che sorge, si afferma e poi comincia, più o meno lentamente, ad appassire, sono stati accelerati, aggravati da una pandemia che da oriente a occidente hanno sbagliato ad affrontare. Con la conseguenza che se in Cina passano dal lay down, il tirare a campare, al Bailan, il lasciarsi morire, in Italia una ricerca OCSE appena uscita testimonia (ne parlavamo ieri) del fenomeno dei rassegnati, i Bailan italiani, chiamati “Neer”, costantemente cresciuti nel biennio concentrazionario: dal al 31,7% nel 2020, al 34,6% nel 2021, al 35 o 40%, presumibilmente, a fine 2022. Cambiano le definizioni, non la sostanza. E non la emergenza. C'era a “Quarta Repubblica”, il programma di Nicola Porro, un ventottenne salito dal Mezzogiorno, imprenditore di due o tre attività: “Non mi arrendo perché non conosco questa parola, ma diventa sempre più dura. Le bollette raddoppiano una dopo l'altra, i prezzi non posso ricaricarli, la clientela soldi non ne ha e devo operare tagli che uccidono me per primo. Ma non posso concepire ragazzi di diciotto, vent'anni che dicono di essere troppo stanchi per lavorare”. Ma non sono stanchi: alcuni sono parassiti, altri, la maggioranza, sono depressi: la forza non ce l'hanno davvero, neppure per alzarsi. Se si sono ammalati i giovani cinesi, che erano macchine da guerra, figuriamoci i nostri. Solo non basterà una pastiglia di Sertralina, mentre da lontano si scorge l'inverno mostruoso, che solo pochi vecchi ricordano, inverno da guerra, con gli occhi di ghiaccio e senza luce. Inverno crudele, che fa marcire, che toglie voglie e respiro peggio della mascherina.