Fine del segreto salariale: la Direttiva UE sulla trasparenza retributiva cambia il lavoro in Europa
Dal 2026 le imprese dovranno garantire informazioni chiare e verificabili sulle retribuzioni. Obiettivo: ridurre il gender pay gap e costruire un mercato del lavoro più equo, trasparente e meritocratico.
Un cambio di paradigma nella retribuzione
C’è tempo fino a giugno 2026 per recepire la Direttiva UE 2023/970 sulla trasparenza retributiva, destinata a trasformare profondamente il modo di intendere il salario in Italia e in Europa. L’obiettivo è ambizioso: ridurre il divario retributivo di genere – oggi pari al 12,7% nell’UE e al 16% tra i laureati italiani (fonte Istat, 2025) – e rendere il sistema retributivo più trasparente, verificabile e giusto. Il principio ispiratore non è quello di imporre salari uguali per tutti, ma di rendere le differenze giustificate e conoscibili, spostando l’attenzione dal segreto al merito.
Trasparenza per competere, non per uniformare
La direttiva afferma un diritto innovativo: ogni lavoratore o lavoratrice potrà richiedere informazioni scritte sul proprio livello retributivo e su quello medio, distinto per genere, dei colleghi che svolgono mansioni di pari valore. Il datore di lavoro dovrà rispondere entro due mesi, fornendo dati aggregati e anonimizzati, conformemente al Regolamento UE sulla protezione dei dati (GDPR). Nessuno potrà conoscere la busta paga del singolo collega, ma tutti potranno sapere se la propria posizione è trattata in modo equo. La trasparenza diventa così uno strumento di competitività aziendale e non un vincolo burocratico, spingendo le imprese verso criteri di valutazione oggettiva e di gestione meritocratica del personale.
Gli obblighi per le imprese e il ruolo della pubblica amministrazione
Il legislatore europeo introduce un sistema di obblighi progressivi basato sulle dimensioni aziendali. Le imprese con oltre 250 dipendenti dovranno redigere ogni anno un report pubblico sul divario retributivo di genere; quelle con 150–249 dipendenti lo faranno ogni tre anni. Se dalle analisi emergerà una differenza superiore al 5% non giustificata da criteri oggettivi (come esperienza o performance), scatterà l’obbligo di una valutazione congiunta con i rappresentanti dei lavoratori. In caso di contenzioso, l’onere della prova sarà a carico del datore di lavoro, rovesciando l’impostazione tradizionale del diritto del lavoro e rafforzando le tutele effettive dei lavoratori. Anche la pubblica amministrazione sarà chiamata ad adeguarsi, non solo come datore di lavoro, ma come ente regolatore e vigilante: dovrà garantire la raccolta, pubblicazione e monitoraggio dei dati retributivi, in collaborazione con gli organismi per la parità e l’Ispettorato nazionale del lavoro.
Addio al segreto salariale: trasparenza e privacy possono convivere
La direttiva sancisce la fine del “segreto salariale”, vietando le clausole contrattuali che impediscono ai lavoratori di discutere o divulgare la propria retribuzione. Resta però ferma la tutela della riservatezza personale: i dati forniti dovranno essere aggregati e non riconducibili a singoli nominativi. Solo rappresentanti sindacali, ispettori o autorità di parità potranno accedere a dati disaggregati in caso di indagini. L’innovazione sta nel bilanciamento tra diritto all’informazione e diritto alla privacy, realizzando un modello di trasparenza responsabile, coerente con i principi del diritto europeo dei dati.
Trasparenza anche nella fase di selezione
Una delle novità più significative è l’obbligo, per i datori di lavoro, di comunicare la retribuzione o la fascia salariale prevista già nei colloqui di selezione, senza poter chiedere al candidato lo stipendio percepito in precedenti impieghi. Questo impedirà che la storia retributiva – spesso segnata da disparità di genere – continui a condizionare il futuro professionale. Il reclutamento dovrà fondarsi su criteri chiari, neutri e documentabili, favorendo così la mobilità professionale e l’allineamento dei salari al reale valore del lavoro svolto.
Un cambiamento culturale prima ancora che normativo
Il recepimento della direttiva rappresenta un banco di prova per la credibilità riformista dell’Italia. Non si tratta solo di introdurre nuovi adempimenti amministrativi, ma di promuovere un cambiamento culturale nel modo di gestire le risorse umane, i sistemi premianti e le progressioni di carriera. Le aziende dovranno avviare un’attenta mappatura dei ruoli e delle competenze, definendo criteri retributivi oggettivi e neutri rispetto al genere. La pubblica amministrazione, dal canto suo, dovrà accompagnare questo processo con formazione tecnica, supporto giuridico e strumenti digitali di monitoraggio, per evitare che la nuova normativa resti sulla carta.
Trasparenza come politica pubblica di equità
La Direttiva 2023/970 non impone salari identici, ma chiede che le differenze siano razionali, documentate e trasparenti. È una misura di buona amministrazione economica, che unisce principi giuridici e obiettivi di efficienza: meno discriminazioni, maggiore fiducia e competitività. Per l’Italia, il 2026 non segnerà solo l’attuazione di un obbligo europeo, ma potrà diventare l’occasione per trasformare la parità retributiva da slogan a pratica amministrativa, rafforzando così la credibilità del Paese nel percorso di convergenza europea