La Gig economy sta distruggendo il valore della ristorazione, a cominciare dal piccolo imprenditore, le cui sofferenze sono invisibili

Tra non molto tempo si automatizzerà tutto, dalla preparazione dei piatti alla consegna. Restano solo gli utili. Con buona pace di quella grande tradizione culinaria italiana che stiamo mandando a farsi benedire

Hanno capito che si stavano consegnando una polpetta avvelenata e quelli di Glovo, che tanta pubblicità stano facendo nelle tv, hanno preferito non mangiarsela e buttarla via. Niente vergognoso “bonus” caldo e polemiche finite prima di farle decollare in una stagione in cerca di argomenti.

L’immagine del rider che consegna sotto il caldo stava diventando un tema di discussione, l’ennesimo: ci sono momenti in cui questi lavoratori delle consegne a cottimo diventano icona negativa della gig economy, paradigma di una qualità occupazionale che tende verso il basso: il rider investito dal pirata della strada o il rider che consegna in situazioni meteo avverse come accadde a Bologna con l’alluvione in corso avevano già fatto discutere abbastanza. E i palinsesti sono pieni di talk e i sindacalisti fintamente indignati li trovi sempre, soprattutto se c’è da montare a prescindere sul governo, dimentichi che tre anni fa il Concertone del Primo Maggio fu sponsorizzato da una di queste multinazionali, ma va beh….

La questione però è un po’ più seria e articolata dell’umiliante bonus di Glovo ai lavoratori, perché si innerva in uno schema dove a essere messo in discussione è il valore totale della ristorazione, a cominciare dal piccolo imprenditore, le cui sofferenze sono invisibili. Non ho mai visto trasmissioni dedicate ai ristoratori impiccati dalle pratiche di queste multinazionali, a me invece era capitato di parlarne nel libro “Moderno sarà lei” perché nel dopo pandemia mi sono ritrovato a diventare il collettore di storie incredibili. Tutti pensano che il ristoratore con le consegne a domicilio ci guadagnano tanto. Invece non è così. Intanto un ristoratore ha sul groppone tutto il carico dei costi e del rischio d’impresa vero, poi ha un canone da pagare per stare sulle piattaforme (talvolta ne deve avere due per reggere la concorrenza) e soprattutto ha la penalità delle loro controprestazioni diluiti nel tempo, perché mentre il cliente paga il servizio di delivery subito, la multinazionale non paga il ristoratore con la stessa velocità. Ma il ristoratore la spesa la deve pagare subito, così come l’affitto, le bollette, i servizi bancari. E spesso deve pagare pure il personale che lo aiuta in cucina o in sala, perché oltre alle consegne ci sono i clienti in sala. Quando ci sono. Già, perché non sempre i coperti fanno tornare i conti.

Ricapitolando. Il ristoratore ha i costi fissi (personale, affitto, bollette, la spesa), ha la manutenzione della cucina e degli elettrodomestici, ha i costi bancari e delle carte di credito, ha come abbiamo visto spesso l’abbonamento con le catene del delivery. Inoltre ha l’alea delle ispezioni: quelle fiscali, quelle del lavoro e quelle igienico sanitarie; sacrosante sia chiaro, ma qualcuno un giorno ci spiegherà perché queste multinazionali pagano meno tasse sul lavoro del ristoratore o del pizzaiolo (al quale il ragazzo delle consegne costerebbe due volte rispetto al rider) e perché i Nas controllano le cucine ma poco si sa di controlli dei box dove custodiscono ogni genere di cibo (e nel caso la multa a chi va?).

La società di delivery non ha i costi fissi del ristoratore, ha dei lavoratori che dopo lunghissime trattative e contenzioni hanno ottenuto qualche garanzia contrattuale in più (la società si difendeva dicendo che lei metteva a disposizione il servizio digitale…), e soprattutto ha tra le mani il vero business del settore che non è - com’era all’inizio - il servizio di mera consegna ma è la mole di dati e informazioni che riguardano le nostre abitudini alimentari, profilate al millimetro. E sono informazioni che valgono oro: provate solo a immaginare a quanto più facile sia metter su un’attività di ristorazione aggregando i dati in una zona specifica.

E veniamo così all’ultimo tema legato al delivery: il dilagare delle dark kitchen o cucine fantasma. A Milano, a Torino, a Roma ne stanno nascendo parecchie; si parla di un +20% nel 2025. Cosa sono? Sono cucine professionali (all’inizio erano nate rilevando locali e know how professionale di chi non ha superato la pandemia ed è rimasto intrappolato dai costi non più sostenibili) dedicate esclusivamente alla preparazione di piatti destinati alla consegna a domicilio. Non ci sono coperti per i clienti perché i clienti al tavolo non sono previsti, non ci sono camerieri ai tavoli e l’unico locale che serve è la cucina. Che sforna piatti che - dati aggregati alla mano - sono di tendenza, quindi l’invenduto è bassissimo. Pasti rapidi destinati a uffici, abitazioni, alberghi. Spesso, dietro il boom di queste dark kitchen, ci sono le stesse multinazionali del delivery con società spin-off. Che tra non molto tempo automatizzeranno tutto, dalla preparazione dei piatti alla consegna. Restano solo gli utili. Con buona pace di quella grande tradizione culinaria italiana che stiamo mandando a farsi benedire.

di Gianluigi Paragone