Big Oil, Big Business, Exxon, BP e le altre: la transizione dimenticata
Le società petrolifere avrebbero dovuto destinare alle rinnovabili parte dei guadagni accumulati grazie alle tensioni geo-politiche. Ma i soldi sono andati agli azionisti. E le tasse restano a macchia di leopardo
Quello che colpisce di più e fa indignare chi sperava in un capitalismo più responsabile, consapevole dei danni arrecati all’ambiente e capace di cambiare rotta, è la disinvoltura con cui le compagnie petrolifere di big oil non solo hanno approfittato dello choc della guerra in Ucraina e di altri fattori di crisi per raddoppiare i loro profitti (circa 220 miliardi di dollari nel 2022), ma hanno usato il grosso di questa ricchezza per retribuire gli azionisti e per manovre finanziare, lasciando solo briciole — o poco più — agli investimenti produttivi.
Andando oltre la superficie di questa esibizione di ingordigia che fa indignare i cittadini e provoca la reazione di governi che minacciano (magari solo per salvare la faccia) di tassare questi extraprofitti, emerge, però, qualcosa di più profondo: un ripensamento circa i tempi e anche la natura dei contributo che questi produttori sono chiamati a dare a quel processo di enorme complessità che definiamo transizione energetica.
Il primo aspetto della questione, l’indignazione e l’invito a tassare, ha il volto di Joe Biden che ha appena «processato» gli industriali del petrolio — da lui paragonati mesi fa ai profittatori di guerra — nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato davanti al Congresso: il presidente ha definito oltraggioso il loro comportamento e ha chiesto ai parlamentari di introdurre una minimum tax da applicare ai profitti miliardari e di quadruplicare l’imposta sui buyback.
Una manovra finanziaria alla quale le società di big oil di recente hanno fatto grande ricorso e che ha il sapore di un ulteriore premio alle rendite finanziarie, senza alcun vantaggio per l’economia reale.
Il ripensamento dei giganti dell’energia, il secondo punto, ha invece il volto di Bernard Looney, il manager irlandese figlio di agricoltori che, arrivato tre anni fa alla guida della BP, era diventato la speranza degli ambientalisti. Looney, ceo di una compagnia che dal 2001 ha fatto dello slogan aziendale Beyond Petroleum (oltre il petrolio) il suo brand e ha inserito nel logo un sole splendente, aveva dato alla società obiettivi di decarbonizzazione molto più ambiziosi di quelli dei suoi concorrenti. Un esempio e un traino che, speravano gli ecologisti, avrebbe potuto spingere anche gli altri giganti del petrolio ad accelerare la transizione energetica.
Le pressioni
Ma ora che le condizioni di mercato sono cambiate, tra impennate dei profitti e difficoltà di approvvigiona- mento di alcuni combustibili, la BP cambia rotta. La società rivede i suoi piani di riduzione dell’estrazione di petrolio e gas: aumenterà la produ- zione e limiterà i suoi ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione. Per- ché incalzata dagli azionisti, ingolositi dai profitti record (27,7 miliardi di dollari nel 2022) e dalla crescita del titolo in Borsa?
Certamente la logica finanziaria pesa, ma Looney difende quello che gli ambientalisti considerano un tradimento con altri argomenti: «Tre anni fa l’enfasi era tutta sull’energia pulita, la priorità era la decarbonizzazione. Oggi, dopo una crisi energetica vissuta in tutto il mondo, la priorità è diventata quella di garantire sicurezza energetica e approvvigionamenti a costi ragione- voli».
I numeri della ricchezza estratta dal sottosuolo sono impressionanti. L’impennata dei prezzi per la guerra in Ucraina (ma il gas era aumentato ben prima dell’invasione russa per problemi di catena delle forniture) ha portato nelle casse delle major profitti mai visti prima (o quasi). Il record spetta alla Exxon Mobil che nel 2022 ha guadagnato 56 miliardi di dollari mentre la Shell si è attestata a 40 e la Chevron a 37. Segue a ruota (36) la francese Total, mentre la BP si è fermata (si fa per dire) a quota 27. Nel gotha dell’industria estrattiva è, poi, ormai entrata stabilmente anche la norvegese Equinor che, con la chiusura dei rubinetti russi, è diventato il maggior fornitore di gas d’Europa: il fantastico profitto operativo di 78,6 miliardi si riduce, una volta pagate le tasse, a un utile netto di 22 miliardi di dollari. Evidentemente quel- lo che Biden chiede rumorosamente a Washington (e che non otterrà, con un Congresso così profondamente diviso), a Oslo è già tranquilla realtà quotidiana.
Complessivamente le major hanno realizzato circa 220 miliardi di dollari di profitti (l’Eni, che è fuori da questo perimetro, ha realizzato anch’essa ol- tre 18 miliardi di profitti nei 12 mesi finiti il 30 settembre scorso), distri- buiti per metà (110 miliardi) a benefi- cio degli azionisti sotto forma di dividendi o di riacquisto di azioni propèrie.
Gli ambientalisti accusano big oil perché non sta investendo, come aveva promesso, una quota rilevante dei suoi utili nello sviluppo delle fonti rinnovabili. Ma la verità è che, anche se è decisa a estrarre di più, l’industria non accelera granché nemmeno negli investimenti per i combustibili fossili. Tanto che Bi- den, che pure ha riportato gli Usa ne- gli accordi di Parigi sul clima e ha fatto votare dal Congresso un piano di interventi per le energie pulite e il clima da quasi 400 miliardi di dollari, mette Exxon e gli altri sotto accusa perché non estraggono abbastanza da ridurre il prezzo dei combustibili.
I prezzi
Musica per le orecchie di big oil che ora spera di rinviare di un bel po’ il declino forzato, conseguenza della transizione energetica. I prezzi non sono più quelli dello scorso anno — la quotazione del gas è scesa sotto i livelli registrati un anno fa, allo scop- pio della guerra — ma la prospettiva del 2023 è quella di un altro anno, comunque, molto redditizio.
I manager delle compagnie vivono l’impennata dei prezzi come una loro vendetta nei confronti di chi li ha costretti a spostarsi verso le fonti rinnovabili: non solo fanno più profitti, ma la scarsità dimostra che avevano ragione loro a voler aumentare l’estrazione. I danni immediati da scarsità diventano, nella testa di molti, più importanti dell’emergenza ambientale.
Fonte: Il Corriere della Sera