Psicoterapia, umanesimo e le nuove frontiere dell'Intelligenza Artificiale. Parliamone con il Prof. Davide Liccione, profondo conoscitore di Martin Heidegger

Per una psicoterapia umanistica, multidisciplinare e aperta alle nuove sperimentazioni. Il caso della SLOP e del MICAL di Milano

Caro Davide grazie del tuo tempo prezioso e di aiutarci a capire meglio le attuali sfide della psicologia. Ho sempre apprezzato il tuo approccio e il tuo spessore non solo professionale ma pure intellettuale, umanistico e filosofico che rivela un'ermeneutica profonda e ampia. Puoi spiegare a chi non ti conosce che tipo di psicologia e psicoterapia insegni e pratichi?

Io mi occupo principalmente di psicoterapia cognitivo–neuropsicologica, sia a livello clinico sia a livello di ricerca scientifica. La Psicoterapia Cognitiva Neuropsicologica (PCN) è una naturale evoluzione della psicoterapia cognitiva standard (CBT), con la quale condivide i due presupposti di base che ne hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo: l’interdisciplinarità e la tendenza alla verificabilità empirica. Tuttavia, la Psicoterapia Cognitivo-Neuropsicologica nasce da una visione dell’essere umano più evoluta e complessa. La persona è un individuo incarnato che costruisce nel tempo significati, identità e progetti all'interno di contesti relazionali e storici che la ricerca e la clinica devono onorare e non semplificare. A partire da questa doverosa complessità dell’umano, l’interdisciplinarità è diventata un dialogo costante e fecondo tra le scienze umane e quelle biologiche, con la neuropsicologia che ha assunto il ruolo ermeneutico di ponte, traducendo tra biologia dell'organismo ed esperienza vissuta. Non si può ridurre l’essere umano né alla sola biologia dell’organismo, né a una macchina razionale che elabora credenze e corregge pensieri distorti. La persona è sempre storia, corpo vissuto, relazioni, progetti e mondi di significato che eccedono qualsiasi modello semplificato. Ho sviluppato il modello di Psicoterapia Cognitivo-Neuropsicologica a partire da una forte insoddisfazione sia per la semplificazione dell'umano caratteristico della CBT standard - secondo la quale l'individuo è un'animale razionale e la psicopatologia consegue a qualche forma di alterazione di questa razionalità - sia per altre terapie poco fondate scientificamente. Il modello nasce dall’incontro fra due universi che ho studiato a fondo: da un lato la tradizione umanistica e fenomenologica, che prende sul serio l’esperienza vissuta e i mondi di significato della persona; dall’altro le neuroscienze, che ci parlano del funzionamento dell’organismo e del sistema nervoso. La PCN prova a tenere insieme questi due livelli – biologico ed esperienziale – in un quadro teorico unitario, rigoroso sul piano scientifico e rispettoso della complessità dell’umano. A partire da questa rinnovata cornice teorica è stato possibile integrare un insieme di sviluppi teorici, clinici e metodologici che conseguono alle più recenti evidenze empiriche fornite dalle neuroscienze, dalla medicina psicosomatica e dall’applicazione di strumenti di Intelligenza Artificiale per valutare e perfezionare le differenti strategie psicoterapeutiche.

Come nasce, in psicoterapia, questa riduzione della natura dell'essere umano alla sola razionalità e come viene superata nella psicoterapia cognitiva neuropsicologica?

L’idea di uomo come animal rationale nasce dalla traduzione/interpretazione che dà Severino Boezio, in continuità con la tradizione logico-metafisica latina, della definizione di Aristotele secondo cui l'uomo è  zôon lógon échon, cioè un “animale dotato di lógos”. Ma lógos non è solo “razionalità” nel senso di calcolo logico: significa anche parola, linguaggio, capacità di dare senso, argomentare, raccontare. La formula boeziana di “animale razionale” è una semplificazione: privilegia la ragione astratta e perde, almeno in parte, la ricchezza esperienziale e narrativa implicita nel lógos aristotelico.  Lógos è più ricco di “ragione” e include parola, linguaggio, senso, narrazione...La Psicoterapia Cognitivo-Neuropsicologica supera la visione dell’uomo come semplice “animale razionale” perché assume, in chiave fenomenologica, che l’essere umano non sia solo un organismo che elabora informazioni o corregge pensieri distorti, ma l’unico animale che, per esistere, deve continuamente commentare la propria esperienza, raccontarla, spiegarla a sé e agli altri, metterla in forma di storie, giudizi, progetti. In questa prospettiva, la PCN ridefinisce l’uomo non come macchina cognitiva più o meno efficiente, ma come soggetto narrativo-corporeo: un vivente che abita il mondo attraverso il logos – inteso come parola, senso e dialogo – in cui l'organismo, le emozioni e i contesti relazionali sono tutti livelli intrecciati di un unico processo per il quale il logos è innanzitutto apertura di mondo e disvelamento: il luogo in cui il corpo i significati, le emozioni e i contesti relazionali si intrecciano in modi sempre nuovi, facendo emergere possibilità esistenziali. La psicopatologia va compresa a partire dai modi con cui questa complessità si manifesta. Parto dall’idea che i sintomi non siano solo “errori chimici” o "elaborazioni sbagliate della realtà", ma modi in cui la persona cerca, a volte goffamente e dolorosamente, di stare al mondo e dare senso alla propria esperienza. Insegno e pratico una psicoterapia che lavora molto sul modo di raccontarsi: come il paziente parla di sé, del proprio corpo, della famiglia, del lavoro, del futuro. Dentro queste narrazioni ci sono sia la sofferenza sia le risorse per affrontarla. Il nostro lavoro è aiutarlo a rimettere ordine, a vedere alternative, a costruire progetti realistici, senza mai separare la dimensione emotiva da quella cognitiva e neuropsicologica. In riferimento a quest'ultima dimensione ricordo che  il funzionamento organismico è una delle condizioni di possibilità affinché all'individuo possa appalesarsi un mondo e quindi viverlo nel Logos.

Tra poco sono dieci anni che hai fondato il Mi.CAL (Milan Institute for health Care and Advanced Learning) a Milano, puoi parlarcene?

Il MiCAL è nato quasi dieci anni fa con un’idea semplice ma impegnativa: mettere sotto lo stesso tetto competenze psichiatriche, psicologiche, psicoterapeutiche, neuropsicologiche e psichiatrico–forensi, in modo integrato. Oggi al MiCAL operano oltre 20 professionisti, con équipe miste su casi complessi: adolescenti e adulti con disturbi dell’umore, ansia, disturbi di personalità, quadri neuropsicologici, situazioni forensi delicate. Cerchiamo di essere un centro di eccellenza ma non “astratto”: facciamo clinica quotidiana, ascolto, colloqui, test, psicoterapia, consulenze in ambito giudiziario, cercando sempre di tenere insieme rigore scientifico e cura concreta per le persone. Mi piace ricordare che il MiCAL è situato tra lo Sky-line di Gae Aulenti/Porta Nuova e i palazzi storici di Milano Repubblica e tutto questo rispecchia parte importante della nostra filosofia di lavoro che consiste nel coniugare le Scienze Umane e quelle Biologiche in una sintesi feconda.

Che rapporto c’è fra il MICAL e la tua SLOP?

Il MiCAL è oggi il centro operativo e strategico delle tre sedi della Scuola Lombarda di Psicoterapia (SLOP) – Pavia, Padova e Arezzo – ed è anche la sede della neonata IPCN (Istituto di Psicoterapia Cognitivo-Neuropsicologica). Sono quattro sedi approvate dal M.U.R. per la specializzazione post-lauream in psicoterapia per medici e psicologi. È, a tutti gli effetti, il cuore clinico e formativo del modello cognitivo-neuropsicologico. Questo significa almeno due cose importanti: Al MiCAL non facciamo solo clinica, ma anche formazione e ricerca. I nostri specializzandi vedono quotidianamente come la teoria diventa pratica sul campo, lavorando su casi reali, supervisioni, progetti di ricerca. Lo stesso dicasi per gli studenti dei corsi di laurea in Psicologia che svolgono da noi il tirocinio formativo e per le mie laureande dell'università di Pavia dove insegno Psicoterapia. Scuole e centro clinico si alimentano a vicenda. Dal lato scuola, le sedi SLOP e l’IPCN portano nel centro un modello teorico d’avanguardia, aggiornato sul piano scientifico; dal lato centro clinico, il MiCAL restituisce alla scuola casi reali, dati, domande nuove, comprese le sfide più attuali come l’uso dell’intelligenza artificiale applicata alla psicoterapia. In pratica, MiCAL, SLOP e IPCN sono tre volti della stessa realtà: una comunità che cura, studia e insegna, tenendo insieme pratica clinica, ricerca e formazione avanzata.

So che ti stai interessando all’utilizzo dell’IA nelle vostre attività di psicoterapia. Come questa tecnologia può aiutare diagnosi e rapporto con il paziente?

Abbiamo appena pubblicato una ricerca su una rivista scientifica internazionale del settore - Psychotherapy Research - su questi temi e altre due lavori sono in fase di pubblicazione. L’IA, se usata bene, non sostituisce il terapeuta, ma gli offre ulteriori orizzonti di senso interpretativi. Nel nostro lavoro abbiamo iniziato a usare i grandi modelli linguistici (LLM) per analizzare i testi dei colloqui: come cambia, nel tempo, il modo in cui il paziente parla di sintomi, relazioni, futuro, del proprio “io agente”. Ricordiamoci che il linguaggio è un'imitazione -mimesis- dell'esperienza concreta. Quindi, i cambiamenti linguisitici - se adeguatamente analizzati - rispecchiano i cambiamenti del comportamento emotivo del paziente, dei sintomi e dei segni delle diverse psicopatologie per le quali egli è in cura. Immagina di poter vedere, su 26 colloqui, una curva che mostra: quanto il discorso è centrato solo sulla sofferenza, quanto compaiono progetti futuri, quanto la persona usa frasi del tipo “decido, scelgo, provo” invece di “subisco”. Dal punto di vista diagnostico e di processo, questo ci aiuta a: vedere se il paziente riesce a contestualizzare la sofferenza emotiva nei contesti di vita; capire se c’è un vero spostamento interno (più agency, più progettualità); avere strumenti oggettivi per discutere in équipe e in supervisione, senza ridurre tutto a impressioni soggettive. Nel rapporto con il paziente, l’IA può diventare uno specchio: mostrare graficamente cambiamenti che la persona magari sente in modo confuso. Ma il commento, il senso, la responsabilità di usare questi dati restano umanissimi, in mano al terapeuta.

Non c’è il rischio che la potenza del mezzo inverta il rapporto fra umanità e tecnica? L’umanesimo e la psicologia resteranno sempre il “linguaggio dei linguaggi”?

Il problema della tecnica è già presente da tempo e Martin Heidegger ha scritto pagine mirabili su questo tema. Non sono di per sè gli strumenti ad essere problematici ma il cambiamento di visione del mondo che la tecnica produce: tutto diventa risorsa da usare, sfruttare, ottimizzare, rendere pienamente disponibile. Così, in ambito psicologico, l'essere umano viene identificato con le sue performance, con le sue capacità, con la sua disponibilità e, infine, con la sua utilità nel più vasto quadro dell'organizzazione sociale. In ambito psicologico-psichiatrico quest'atteggiamento produce la reificazione della psicopatologia, per cui si arriva a individuare la persona attraverso le categorie diagnostiche: Paolo è un ossessivo, Marta è una depressa, ecc., come se una persona potesse mai coincidere con un elenco di sintomi e segni. L'intelligenza artificiale è uno strumento «demotivato» nel senso che da sola, senza le istruzioni degli umani, non produce alcunché. L'intelligenza artificiale non ha un corpo, quindi non prova emozioni e non si sente mai situata in qualche parte del mondo. Quindi, al momento è impensabile che l'AI possa sostituire lo psicoterapeuta ma, purtroppo, si stanno creando sempre più software basati su AI che in modo autonomo e non controllato conducono attività psicologiche con pazienti reali con danni che a volte si sono dimostrati fatali. E tutto questo perché l'attività di questi sistemi è sicuramente meno costosa rispetto a quella dei clinici umani. Questo è un cattivo uso della tecnica. Io vedo le cose diversamente: la psicologia clinica e la psicoterapia restano il luogo in cui si ascolta l’esperienza viva, irriducibile, singolare. Nella relazione con il paziente non incontro solo “un caso clinico”, ma una parte di mondo che si rende visibile: attraverso il suo modo di parlare, di ricordare, di temere, di sperare, emergono i significati nei quali quella persona esiste – la famiglia, il lavoro, la storia corporea, i legami affettivi, le attese sul futuro -. Fare psicoterapia, in questo senso, è entrare in contatto con questi mondi impliciti e lavorare insieme perché diventino più pensabili. E da qui comprendere se sono autenticamente abitabili oppure risulta necessario trasformarsi, quanto basta, per esistere altrimenti. L’IA è uno strumento avanzato di lettura dei testi e di pattern, utile solo se rimane al servizio di una domanda umana e di un’etica della cura. L’umanesimo – nel senso forte, non retorico – resta il “linguaggio dei linguaggi”: è il quadro dentro cui decidiamo che cosa abbia valore, che cosa sia giusto, che cosa vogliamo preservare della persona. L’IA può aiutarci a vedere meglio, a non sprecare dati, a cogliere sfumature nei processi di cambiamento, ma non può dirci cosa sia una vita autentica o che cosa voglia dire prendersi cura. Se utilizzata in questo modo la tecnica non schiaccia l’umano: lo amplia. Se ce ne dimentichiamo, nessun algoritmo potrà salvarci dalla nostra stessa disumanizzazione.