Ratti (architetto): "I modelli generativi di AI possono facilitare processi partecipativi, come stiamo sperimentando con il Comune di Napoli in un progetto sulle Vele di Scampia"
Carlo Ratti, professore al Massachusetts Institute of Technology di Boston da dove dirige il Senseable City Lab è stato intervistato da Il Giornale d'Italia riguardo al futuro delle metropoli e all'impatto delle nuove tecnologie
Carlo Ratti, professore al Massachusetts Institute of Technology di Boston, da dove dirige il Senseable City Lab, è stato intervistato da Il Giornale d'Italia riguardo al futuro delle metropoli e all'impatto delle nuove tecnologie.
Come riesce e come potrà il laboratorio Senseable Lab dare un aiuto concreto al nostro presente e al futuro?
Ci concentriamo sulla ricerca. Siamo tra i primi centri di ricerca sulla città al mondo in termini di impatto scientifico. Ma non vogliamo solo produrre articoli accademici: molti dei nostri progetti hanno ispirato azioni concrete. Due esempi fra molti: Live Singapore, ad esempio, ha condotto a grandi iniziative come Smart Nation a Singapore; mentre Hub Cab è stato alla base del lancio di Uber Pool, ora Uber Share.
Qual è il progetto a cui ha lavorato che rappresenta al meglio il concept del laboratorio?
Il prossimo! Scherzi a parte, per noi ogni progetto ha un impatto che può essere misurato secondo tre vettori. Il primo è scientifico, quindi qualità e impatto della ricerca. Il secondo è urbano, cioè la capacità di tradursi in politiche o interventi reali. Il terzo è civico, quindi l’effetto sul dibattito pubblico e sul coinvolgimento dei cittadini, anche tramite mostre ed eventi. Tutti i nostri progetti lavorano su questi aspetti, sebbene con mix diversi.
Qual è invece l’ultimo progetto a cui ha lavorato?
In questi giorni sono a COP30 in Brasile per un progetto non del nostro laboratorio, il Senseable City Lab, ma di CRA-Carlo Ratti Associati. Si chiama AquaPraça. È una piattaforma culturale galleggiante di circa quattrocento metri quadrati, ormeggiata lungo la baia di Guajará a Belém, nel sistema del Rio delle Amazzoni. Funziona come una piazza sull’acqua e si adatta alle maree quotidiane, che lì possono arrivare a quattro metri. Dopo una prima apparizione a Venezia durante la Biennale Architettura 2025, a COP30 diventa parte del Padiglione Italia e ospita incontri, programmi culturali e discussioni sulle politiche climatiche. Finita la conferenza, la struttura resterà in Amazzonia come infrastruttura pubblica permanente, donata dall’Italia al Brasile. Il progetto è pensato fin dall’inizio come una struttura con molte vite, quindi capace di spostarsi, riattivarsi e cambiare funzione senza perdere la propria identità.
Tenendo conto del tema dell’Arch Week 2025 ‘Inequalities and Architecture’, come può il design urbano favorire l’inclusione sociale e la partecipazione dei cittadini?
Partirei dal capire meglio le disuguaglianze attraverso i dati. Con essi, infatti, possiamo far emergere quelli che con Richard Sennett abbiamo chiamato liminal ghettos (ghetti liminali): nuove forme di segregazione urbana che non hanno bisogno di muri o confini leggibili e che per questo sono ancora più insidiose.
I ghetti liminali nascono da routine quotidiane, scelte di mobilità, piattaforme digitali che riducono le occasioni di incontro fra gruppi sociali diversi. I dati aiutano a renderle visibili perché mostrano chi incrocia chi, dove e quando. Se vuoi progettare inclusione devi intervenire lì, nei passaggi, nelle soglie, nei luoghi di attraversamento, non soltanto nei quartieri di residenza. Parchi, scuole, mercati, spazi pubblici ben disegnati sono decisivi perché aumentano la probabilità di sovrapposizione tra vite diverse. La partecipazione viene dopo, perché funziona davvero solo quando l’ambiente urbano rende possibile la mescolanza.
Quali sono le tendenze e i temi focali in ambito urbanistico che le nostre metropoli dovranno affrontare nel futuro?
La parola chiave è adattamento a un clima che cambia. Alla Biennale di Architettura del 2025 abbiamo già insistito su questo punto. Ma adattamento non significa archiviare la mitigazione. Le due cose devono procedere insieme. Mitigare resta fondamentale per ridurre le emissioni e rallentare la crisi. Adattarsi è ciò che permette di sopravvivere in condizioni climatiche mutate, dalle ondate di calore alle alluvioni alla siccità. Le città devono quindi lavorare su entrambi i fronti, accelerando la riduzione delle emissioni e al tempo stesso progettando spazi e infrastrutture resilienti.
Come può una metropoli preservare la propria identità culturale nel contesto di questa evoluzione tecnologica?
È una grande domanda che tocca il tema dell’universalizzazione, già evidenziato da Paul Ricoeur quando parlava del rischio di un mondo fatto degli stessi oggetti e delle stesse abitudini ovunque. Oggi quella pressione è aumentata perché la standardizzazione passa anche dalle piattaforme digitali. Tuttavia, se le reti sono parte del problema, esse possono anche essere parte della soluzione: premettono di amplificare l’ascolto della comunità rendendo leggibili voci, memorie e bisogni locali. In questo modo la cultura urbana può continuare a essere praticata e reinventata.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, il rapporto tra elementi artificiali e naturali?
Dovrebbe esserci un’alleanza, non un conflitto. Rendere gli edifici più responsivi, far lavorare i materiali con logiche metaboliche, ospitare altre forme di vita senza ridurle a ornamento. Non è un tema estetico, è un modo realistico di abitare un pianeta dove naturale e artificiale sono intrecciati.
In che modo la tecnologia e l’intelligenza artificiale stanno trasformando la pianificazione e la progettazione urbana?
In due direzioni complementari. La prima riguarda la lettura della città. Con il deep learning analizziamo Big Data e possiamo osservare fenomeni urbani su scala e tempi prima impensabili. La seconda riguarda l’immaginazione progettuale. La seconda riguarda i modelli generativi tipo ChatGPT, che aiutano a esplorare rapidamente scenari progettuali, soprattutto nelle fasi iniziali, e possono anche facilitare processi partecipativi, come stiamo sperimentando con il Comune di Napoli in un progetto sulle Vele di Scampia. Essi permettono di tradurre racconti e preferenze di chi non è progettista in ipotesi spaziali che possono essere discusse.
Che ruolo giocano i big data nella progettazione della città del futuro?
I Big Data significano una miglior conoscenza. Ci permettono di capire meglio il contesto urbano e di prendere decisioni basate su dati concreti, piuttosto che su ipotesi o intuizioni.
Come la mobilità sostenibile e la decarbonizzazione sono affrontate nelle ricerche del laboratorio?
In molti modi, a partire dal capire meglio gli stili di vita delle persone. La decarbonizzazione non riguarda solo la tecnologia, ma anche il cambiamento dei comportamenti individuali e collettivi.
Com’è stata la sua esperienza nella curatela della scorsa edizione della Biennale di Architettura?
È stata un’esperienza molto positiva, soprattutto per la capacità di fare comunità. È stato un lavoro corale: con la nostra squadra curatoriale, con il team della Biennale di Venezia, con la rete degli architetti invitati e con la compagine delle partecipazioni nazionali. Tutto ciò insieme alla open call “Space for Ideas” e al coinvolgimento di molte figure professionali (progettisti e scienziati, ingegneri e artisti, ricercatori, professionisti emergenti e figure affermate) hanno reso la mostra un organismo vivo, fatto da un mix ascolto dal basso e selezione dall’alto. È stato un processo faticoso, ma che credo possa restituire all’architettura la sua dimensione più attuale - pratica condivisa dentro un mondo instabile.
Ci concentriamo sulla ricerca. Siamo tra i primi centri di ricerca sulla città al mondo in termini di impatto scientifico. Ma non vogliamo solo produrre articoli accademici: molti dei nostri progetti hanno ispirato azioni concrete. Due esempi fra molti: Live Singapore, ad esempio, ha condotto a grandi iniziative come Smart Nation a Singapore; mentre Hub Cab è stato alla base del lancio di Uber Pool, ora Uber Share.
Qual è il progetto a cui ha lavorato che rappresenta al meglio il concept del laboratorio?
Il prossimo! Scherzi a parte, per noi ogni progetto ha un impatto che può essere misurato secondo tre vettori. Il primo è scientifico, quindi qualità e impatto della ricerca. Il secondo è urbano, cioè la capacità di tradursi in politiche o interventi reali. Il terzo è civico, quindi l’effetto sul dibattito pubblico e sul coinvolgimento dei cittadini, anche tramite mostre ed eventi. Tutti i nostri progetti lavorano su questi aspetti, sebbene con mix diversi.
Qual è invece l’ultimo progetto a cui ha lavorato?
In questi giorni sono a COP30 in Brasile per un progetto non del nostro laboratorio, il Senseable City Lab, ma di CRA-Carlo Ratti Associati. Si chiama AquaPraça. È una piattaforma culturale galleggiante di circa quattrocento metri quadrati, ormeggiata lungo la baia di Guajará a Belém, nel sistema del Rio delle Amazzoni. Funziona come una piazza sull’acqua e si adatta alle maree quotidiane, che lì possono arrivare a quattro metri. Dopo una prima apparizione a Venezia durante la Biennale Architettura 2025, a COP30 diventa parte del Padiglione Italia e ospita incontri, programmi culturali e discussioni sulle politiche climatiche. Finita la conferenza, la struttura resterà in Amazzonia come infrastruttura pubblica permanente, donata dall’Italia al Brasile. Il progetto è pensato fin dall’inizio come una struttura con molte vite, quindi capace di spostarsi, riattivarsi e cambiare funzione senza perdere la propria identità.
Tenendo conto del tema dell’Arch Week 2025 ‘Inequalities and Architecture’, come può il design urbano favorire l’inclusione sociale e la partecipazione dei cittadini?
Partirei dal capire meglio le disuguaglianze attraverso i dati. Con essi, infatti, possiamo far emergere quelli che con Richard Sennett abbiamo chiamato liminal ghettos (ghetti liminali): nuove forme di segregazione urbana che non hanno bisogno di muri o confini leggibili e che per questo sono ancora più insidiose.
I ghetti liminali nascono da routine quotidiane, scelte di mobilità, piattaforme digitali che riducono le occasioni di incontro fra gruppi sociali diversi. I dati aiutano a renderle visibili perché mostrano chi incrocia chi, dove e quando. Se vuoi progettare inclusione devi intervenire lì, nei passaggi, nelle soglie, nei luoghi di attraversamento, non soltanto nei quartieri di residenza. Parchi, scuole, mercati, spazi pubblici ben disegnati sono decisivi perché aumentano la probabilità di sovrapposizione tra vite diverse. La partecipazione viene dopo, perché funziona davvero solo quando l’ambiente urbano rende possibile la mescolanza.
Quali sono le tendenze e i temi focali in ambito urbanistico che le nostre metropoli dovranno affrontare nel futuro?
La parola chiave è adattamento a un clima che cambia. Alla Biennale di Architettura del 2025 abbiamo già insistito su questo punto. Ma adattamento non significa archiviare la mitigazione. Le due cose devono procedere insieme. Mitigare resta fondamentale per ridurre le emissioni e rallentare la crisi. Adattarsi è ciò che permette di sopravvivere in condizioni climatiche mutate, dalle ondate di calore alle alluvioni alla siccità. Le città devono quindi lavorare su entrambi i fronti, accelerando la riduzione delle emissioni e al tempo stesso progettando spazi e infrastrutture resilienti.
Come può una metropoli preservare la propria identità culturale nel contesto di questa evoluzione tecnologica?
È una grande domanda che tocca il tema dell’universalizzazione, già evidenziato da Paul Ricoeur quando parlava del rischio di un mondo fatto degli stessi oggetti e delle stesse abitudini ovunque. Oggi quella pressione è aumentata perché la standardizzazione passa anche dalle piattaforme digitali. Tuttavia, se le reti sono parte del problema, esse possono anche essere parte della soluzione: premettono di amplificare l’ascolto della comunità rendendo leggibili voci, memorie e bisogni locali. In questo modo la cultura urbana può continuare a essere praticata e reinventata.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, il rapporto tra elementi artificiali e naturali?
Dovrebbe esserci un’alleanza, non un conflitto. Rendere gli edifici più responsivi, far lavorare i materiali con logiche metaboliche, ospitare altre forme di vita senza ridurle a ornamento. Non è un tema estetico, è un modo realistico di abitare un pianeta dove naturale e artificiale sono intrecciati.
In che modo la tecnologia e l’intelligenza artificiale stanno trasformando la pianificazione e la progettazione urbana?
In due direzioni complementari. La prima riguarda la lettura della città. Con il deep learning analizziamo Big Data e possiamo osservare fenomeni urbani su scala e tempi prima impensabili. La seconda riguarda l’immaginazione progettuale. La seconda riguarda i modelli generativi tipo ChatGPT, che aiutano a esplorare rapidamente scenari progettuali, soprattutto nelle fasi iniziali, e possono anche facilitare processi partecipativi, come stiamo sperimentando con il Comune di Napoli in un progetto sulle Vele di Scampia. Essi permettono di tradurre racconti e preferenze di chi non è progettista in ipotesi spaziali che possono essere discusse.
Che ruolo giocano i big data nella progettazione della città del futuro?
I Big Data significano una miglior conoscenza. Ci permettono di capire meglio il contesto urbano e di prendere decisioni basate su dati concreti, piuttosto che su ipotesi o intuizioni.
Come la mobilità sostenibile e la decarbonizzazione sono affrontate nelle ricerche del laboratorio?
In molti modi, a partire dal capire meglio gli stili di vita delle persone. La decarbonizzazione non riguarda solo la tecnologia, ma anche il cambiamento dei comportamenti individuali e collettivi.
Com’è stata la sua esperienza nella curatela della scorsa edizione della Biennale di Architettura?
È stata un’esperienza molto positiva, soprattutto per la capacità di fare comunità. È stato un lavoro corale: con la nostra squadra curatoriale, con il team della Biennale di Venezia, con la rete degli architetti invitati e con la compagine delle partecipazioni nazionali. Tutto ciò insieme alla open call “Space for Ideas” e al coinvolgimento di molte figure professionali (progettisti e scienziati, ingegneri e artisti, ricercatori, professionisti emergenti e figure affermate) hanno reso la mostra un organismo vivo, fatto da un mix ascolto dal basso e selezione dall’alto. È stato un processo faticoso, ma che credo possa restituire all’architettura la sua dimensione più attuale - pratica condivisa dentro un mondo instabile.