"Cane di paglia", di Sam Peckinpah: film fisiologicamente disorientante e ambiguo, che si chiude dove era iniziato: con la solitudine dell’individuo

David, intellettuale americano in cerca di tranquillità, si trasferisce con la moglie Amy in un piccolo villaggio della Cornovaglia, dove l’apparente quiete nasconde una violenza tribale e una frustrazione collettiva che li circonda fin dall’inizio

Cane di Paglia (titolo originale: Straw Dogs) del 1971, vede alla regia un Peckinpah grandioso, partecipe alla sceneggiatura (ispirata al romanzo The Siege of Trencher’s Farm di Gordon M. Williams, del 1969) assieme a David Zelag Goodman. John Coquillon invece apparecchia una fotografia caratterizzata da forte uso di luce naturale, palette terrosa e impostazione realista. Il montaggio, sotto la guida attenta di Peckinpah, è di Roger Spottiswood e Paul Davies, e più in là lo prenderemo in esame perché rivelatore. Jerry Fielding invece provvede una musica dalla partitura minimale e inquieta.

È un film fisiologicamente disorientante, ambiguo, ostile alle leggi elettive di una civiltà labile che può venire meno senza revoche quando in connubio con l’elemento del possesso e del desiderio (in questo caso carnale ma anche politico, se si pensa alla strenua difesa della proprietà privata, contro la mimesi violenta che esplode anarchicamente nel borgo di Cornovaglia dove il film è ambientato). E si percepisce fin dai titoli di testa una sorta di anticipazione programmatica della pellicola (che è una pellicola a tema). Peckinpah lavora spesso con immagini disturbate, siano esse linee di fuoco, movimenti convulsi, montaggio irregolare, profondità di campo instabile. Questo afferisce a una poetica coerente: la visione dell’essere umano è sempre parziale, sdrucciola, fallace. Così, il fuori fuoco nei titoli d’avvio è una forma di “errore intenzionale”, un modo per sottrarre alla cinepresa il suo potere onnipervasivo e narrativamente ordinato di rendere il mondo intelligibile. L’incipit sfocato non è solo formalmente innovativo, ma anticipa il fatto che il film non offrirà regole morali chiare e univoche, non stabilirà un punto di vista neutrale, calerà lo spettatore in un territorio dove la chiarezza è impossibile… O forse, più semplicemente, allineerà il pubblico alla miopia morale del protagonista, offrendo anche una introduzione graduale alla violenza latente con un gesto registico ossimorico che presenta, finalmente a fuoco, dei bambini in gioco. Gesto registico coerente, denso e profondamente in linea con l’intero universo di Peckinpah. Il villaggio della Cornovaglia non è semplicemente “misterioso”, come in una diegetica narrativa classica che ha ascendenti letterari precisi in cui lo straniero è progressivamente calato nel luogo fisico, morale, fattuale e metaforico di un ambiente straniero (si pensi all’espediente di “Wuthering Eights”): è resistente alla lettura, ostile a un’interpretazione intellettuale. Il fuori fuoco suggerisce quindi: “Questo posto non ti si svela subito. Non ti vuole.” In effetti la realtà locale, scabra e laida, rozza e primordiale è quella di un luogo dove non è attecchita che come una pianta sdutta la civiltà nota, e in cui le regole polite del protagonista David/Hoffman incontrano refrattarietà aperta: essa non funziona secondo i codici razionali di questi, non è conciliante, non è accogliente, è infida come un serpe addormentato. La trama è spiccia e diretta. David, intellettuale americano in cerca di tranquillità, si trasferisce con la moglie Amy in un piccolo villaggio della Cornovaglia, dove l’apparente quiete nasconde una violenza tribale e una frustrazione collettiva che li circonda fin dall’inizio. Le tensioni con i locali crescono, culminando nell’aggressione carnale di Amy, che la comunità ignora mentre scivola verso una crisi sempre più incontrollata. Quando gli abitanti del paese si lanciano in una caccia all’uomo contro un individuo mentalmente menomato, David — quasi per caso — si ritrova a proteggerlo nella propria casa. L’episodio scatena l’assedio dei paesani e costringe David a rispondere alla violenza con violenza, in un crescendo che lo trasforma profondamente: nel difendere la sua casa e il fuggitivo, finisce per adottare la stessa brutalità dei suoi aggressori. Il film rivela così come l’ordine sociale possa sgretolarsi e come la violenza, una volta innescata, si replichi senza distinzione tra vittime e carnefici.

Dopo questa epitome, ci concediamo un andamento non lineare, nell’analisi della pellicola, procedendo in modo diacronico a partire dalla funzione liturgica nella chiesa della comunità, cui Amy assiste dopo esser stata brutalmente violentata in una delle sequenze più crude e insostenibili della storia del cinema. Nel linguaggio biblico e liturgico, “strappare” o “stracciare” appare in vari contesti: i vestiti stracciati come segno di lutto, il velo del Tempio che si strappa dopo la morte di Cristo, il “cuore da lacerare e non le vesti” dei profeti. Il parroco del villaggio fa suo questo linguaggio: sono tutte immagini legate a rottura, esposizione, confessione. Peckinpah prende questo vocabolario e lo trasporta nella carne del suo film, sovrapponendolo al trauma di Amy: il corpo di Amy è stato letteralmente “lacerato”; l’ordine morale del villaggio è lacerato, la maschera di civiltà di David sta per lacerarsi anch’essa. Il verbo liturgico si “materializza” quindi come metafora carnale, anche se la chiesa non ne è minimamente consapevole. Una metonimia della violenza e la parola sacra che nomina senza sapere. La cosa più perturbante è che il pastore pronuncia questa parola proprio mentre Amy, che è stata stracciata nel senso più brutale possibile, è presente tra i fedeli. La comunità ascolta un discorso che — in forma indiretta, simbolica — descrive ciò che le è stato fatto, ma senza riconoscerlo. È una scena di crudeltà simbolica: la parola religiosa tocca la verità del trauma, ma non la vede. Lo straccio liturgico diventa eco inconsapevole dello straccio carnale. In una narrazione tradizionale, il linguaggio sacro dovrebbe dare significato al dolore, incorniciarlo, renderlo dicibile. Peckinpah rovescia tutto: il linguaggio della chiesa nomina la lacerazione, il corpo della vittima incarna la lacerazione, e nessuno collega le due cose. Questa disgiunzione è il cuore della scena. La metafora carnale funziona proprio perché rimane non riconosciuta. È un linguaggio che parla del trauma mentre lo nega — un paradosso tipico della società patriarcale chiusa e violenta del villaggio. Lo “strappo” nella simbologia religiosa è anche atto di separazione, rottura dell’unità. La presenza di Amy nella chiesa, dopo lo stupro, è un corpo “strappato”: dal proprio sé, dal proprio matrimonio, dalla comunità (che la ignora), dal mondo civile (confinato altrove), dal linguaggio che dovrebbe darle voce (ella tace e continua a tacere, la violenza resta un marchio innominabile e una realtà da rimuovere). In questo senso, lo stracciare dell’omelia enfatizza la sua emarginazione ontologica, non solo psicologica.

Amy è ormai un corpo “fuori dal sacro”, non reintegrabile. La scena funziona come specchio… Strappo spirituale: il pastore parla del distacco dal peccato o dall’orgoglio; strappo carnale: lo stupro ha frantumato l’integrità fisica e psichica di Amy. Peckinpah accosta i due livelli senza mai esplicitarlo, creando un effetto quasi sacrilego: il sacro parla di rottura, mentre la carne violata è lì, non nominata, e nessuno vede. È un momento di mise en abyme morale: il linguaggio che dovrebbe guarire invece denuncia la sua impotenza. Nelle tradizioni arcaiche, lo “strappo” rituale ha una funzione catartica: si strappa ciò che è impuro, si strappa ciò che deve essere separato dalla comunità; si strappa per ristabilire ordine. Ma nella sequenza Amy non viene purificata; la comunità non riconosce alcun disordine; il rito non ha esito. L’immagine religiosa si svuota: resta solo l’eco ironica e crudele di un simbolo che non ha più presa sulla realtà. Questo amplifica la metafora carnale: il rito non ricompone lo strappo del corpo. Peckinpah monta la scena in modo da farci percepire la parola “stracciare” come un colpo di lama sulla psiche di Amy. È un montaggio ellittico che suggerisce: shock, flashback taciuto, correlazione inconscia tra parola liturgica e violenza subita. È una composizione simbolica, non narrativa.

David, invece, è un uomo ordinario e integrato, razionale (un matematico, nel film), e si direbbe estraneo alla violenza. Nel Vangelo, “Satana scaccia Satana” significa: il male che combatte il male, la violenza che pretende di fermare altra violenza ma la riproduce, con l’impossibilità di fatto di spezzare la spirale con gli stessi mezzi che la alimentano. Per Girard (cui Peckinpah è naturalmente estraneo, ma del quale vale la pena avvalersi perché perfettamente consono allo spirito della pellicola e al suo impianto simbolico) questo è il cuore della violenza mimetica: la violenza genera violenza, l’eliminazione del violento avviene per mezzo di altra violenza. Il sistema si autoalimenta. La comunità trova pace solo attraverso un capro espiatorio sacrificato. In Cane di paglia questo schema non solo è applicabile: è letteralmente la struttura motrice dell’intero film. David inizia il film come intellettuale, pacifista, esterno alla cultura locale, refrattario alla violenza e dominato dal “codice della ragione”. Ma, come Girard descrive, il soggetto che rifiuta la violenza è spesso proprio quello che, posto in un sistema sufficientemente pressurizzato, viene risucchiato nella violenza mimetica. Che cosa accade a David? Osserva la virilità aggressiva dei locali. Ne subisce l’umiliazione. Non reagisce, poi reagisce in ritardo, poi reagisce troppo. Ne imita i modelli di forza, persino i gesti. La sua violenza finale non è un tradimento della propria natura, ma un compimento mimetico: David diventa simile ai suoi antagonisti proprio mentre cerca di difendersene. Satana scaccia Satana.

La comunità della Cornovaglia funziona esattamente come le “società arcaiche” descritte da Girard: compatta, tribale, con una struttura interna violenta ma regolata da ruoli, con una logica del gruppo contro l’estraneo. David e Amy sono estranei: questo li rende automaticamente potenziali obiettivi della tensione interna della comunità. Secondo Girard, quando una comunità attraversa una fase di disordine, la tensione cresce finché emerge un colpevole designato (capro espiatorio), la violenza converge su quel bersaglio, il suo sacrificio ristabilisce l’ordine. Peckinpah mostra esattamente questo fenomeno in azione: Il villaggio è in crisi (frustrazione economica, maschilità frustrata, gerarchie instabili). David diventa il bersaglio prescelto, perché estraneo e “soft”. L’assedio alla casa è la fase di convergenza mimetica della violenza.

Girard sottolinea come le società spesso scarichino le tensioni sulla figura femminile, soprattutto quando la sua collocazione sociale è ambigua. Amy nel film diventa oggetto del desiderio (mimetico: tutti vogliono ciò che l’altro desidera), causa apparente del conflitto (gli uomini proiettano su di lei la loro impotenza e la loro rivalità), vittima sacrificale (lo stupro è un “sacrificio” collettivo, non un atto individuale). Il suo trauma è funzionale non solo alla perversione dei singoli aggressori, ma alla ricomposizione momentanea del gruppo maschile, che si compatta nella violenza. È la logica del sacrificio: un corpo si lacera per ricucire l’ordine del gruppo. E questa idea si collega perfettamente con l'omelia sullo “stracciare”, che funziona come eco religiosa della lacerazione rituale. La scena dell’assedio finale è lo svolgimento pieno del principio Satana scaccia Satana. Cosa fa David? Per difendersi dai violenti, diventa più violento, uccide con la stessa ferocia, scopre dentro di sé un gusto nuovo per la potenza fisica, si immerge nella brutalità come in un rito di passaggio. Si direbbe che David non esce dal ciclo mimetico, ma lo riproduce con maggiore intensità. La sua violenza restituisce ordine alla sua casa, alla sua identità, al suo ruolo maschile. È un atto sacrale, non etico. Il risultato è paradossale: David vince, ma non trionfa. È salvo, ma non è più se stesso. Peckinpah non offre un fantasma di purificazione cristiana, né una visione liberatoria. La logica pessimistica è totale: non c’è uscita dal ciclo se non attraverso un sacrificio definitivo — che qui manca. David non sacrifica sé stesso, né sacrifica gli altri in modo simbolico; massacra i suoi aggressori ma non ripristina un ordine che abbia senso. Peckinpah è lucido: ogni tentativo di estinguere la violenza attraverso altra violenza è fallimentare. Il mondo resta fratturato. Manca la rivelazione: niente cristianesimo, niente smascheramento del ciclo. Solo ripetizione. Nel film: la comunità produce tensione mimetica, la tensione cerca un bersaglio, il bersaglio iniziale è Amy, il bersaglio finale è David, la violenza si giustifica da sé, la repressione della violenza avviene con la violenza, il protagonista si “animalizza” e nessuno esce davvero dal ciclo. Il finale è una carneficina grandguignolesca, un picco di brutalità primordiale e cieca, e l’intero arco drammatico del film dimostra una sola verità: chi cerca di contenere la violenza con la violenza finisce per riprodurla. La violenza non si elimina: si trasferisce. Il montaggio, così, è geometricamente puntuale. Si assiste all’avvio a un montaggio “compressivo”: tempi dilatati, stacchi lenti, osservazione ambiente-corpo, micro-gesti inconclusi. Comunicazione implicita e sospesa che va a accumulare tensione senza manifestarla, a mostrare la violenza come potenziale, a far percepire un mondo dove il conflitto non esplode: s’infiltra.

Peckinpah costruisce così la rete mimetica della comunità, fatta di sguardi, gelosie, frustrazioni, piccole e meschine umiliazioni. Segue un montaggio “espulsivo”: esplosioni di tempo reale e slow motion, frammentazione dei gesti violenti, alternanza colpo/controcampo in ritmi sincopati, sovrapposizioni ritmiche tra interni ed esterni. Questo montaggio è lo schema fisico della spirale, è un montaggio non solo narrativo ma morale: il caos interno del villaggio diventa caos del film. Peckinpah è ossessionato da tre temi, ben rintracciabili anche in Il mucchio selvaggio, Pat Garrett & Billy the Kid, Bring Me the Head of Alfredo Garcia: la civiltà è un velo sottile, la legge è inefficace, il codice morale è retrogrado o ipocrita. In Cane di paglia, la chiesa, la polizia, la comunità falliscono sistematicamente. La violenza non è una deviazione: è il fondamento. Del resto in Peckinpah, gli uomini resistono, cedono, e infine diventano ciò che combattono. David Sumner è un archetipo peckinpahiano: l’uomo che non vuole essere violento, che la violenza trova, e che, alla fine, la incarna: rituale, estetica, catartica nel senso arcaico, mai spettacolare o fine all’intrattenimento. Il montaggio lento/veloce, il dilatare del sangue, il gesto ripetuto… tutto concorre a farla percepire come evento liminale, un rito di passaggio che trasforma chi lo vive. Il montaggio ellittico registra sguardi, equivoci, non detti, creando una tensione mimetica latente. Con la violenza su Amy diventa ambiguo, disturbante, oscillante tra soggettività e oggettività: un’invasione del corpo e dello spazio filmico (ma anche sottilmente misogino, direbbe qualcuno, nel far affiorare disgusto, profanazione e piacere latente in un’unica concrezione emozionale che, in realtà, offre una profondità antropologica esule dal cliché vittima/carnefice puro).

Durante la funzione religiosa post-trauma il montaggio “trasparente” ma estraniante sottolinea l’indifferenza della comunità: la parola sacra non cura, la comunità non assorbe. Si ha poi un primo capro espiatorio nella figura del “matto del villaggio”: un ragazzone rozzo e ritardato ma innocuo che catalizzerà su di sé una vera e propria caccia al maniaco; la comunità scarica la tensione mimetica su un nuovo capro espiatorio. Poco prima del brutale epilogo David lo protegge da chi si unisce per linciarlo e il montaggio è peckinpahiano puro: frammentazione, slow motion, accelerazioni in cui David assume completamente su sé e dentro sé la logica della violenza.

Nel finale il montaggio torna lento, David è esausto ma trasformato, la comunità è decimata. Nulla è risolto. David è divenuto specchio degli aggressori: stessi gesti, stessa ferocia, stessa logica di distruzione. L’intellettuale diventa guerriero. Il film si chiude dove era iniziato: con la solitudine dell’individuo. La tragedia è incomunicabile, non un fatto estetico, non un fatto morale, ma una realtà che sotto la lente di uno sguardo anarchico e pressoché nichilista, diviene la chiave di volta di eventi che ripiombano la civiltà in un buio ancestrale e magmatico che giace appena sotto la cenere sottile di patti sociali sempre provvisori, sempre labili e compromissori. Il resto è homo homini lupus.

di Massimo Triolo