"La fine di Israele" di Ilan Pappè, una lungimirante analisi che si colloca ben oltre la formula "due popoli, due Stati"
Lo storico israeliano pone Israele davanti a un bivio, contrasta il dogma "due popoli, due Stati" e, tra le righe, offre alla sinistra occidentale un appello di revisione ideologica
L'ebreo antisionista Ilan Pappé è autore de "La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina". Pubblicato da Fazi Editore agli inizi di ottobre, il nuovo saggio di uno dei dei più noti accademici israeliani attuali non si ferma all'analisi. Apre vie concrete a un possibile cambiamento per la tormentata Palestina. Nel libro, Pappé delinea il declino di Israele: un processo che sarebbe in divenire. Non un crollo provocato da forze esterne, ma generato dalle contraddizioni che attraversano la società israeliana. La prima parte del volume si apre con un capitolo che ripercorre a passi rapidi la storia del cosiddetto "processo di pace". Pappé lo considera un percorso controllato da mediatori americani che diedero per scontate le conquiste israeliane, offrendo ai palestinesi solo concessioni calcolate. Il capitolo successivo porta la lente sull'oggi e individua sette crepe che si allargano nel corpo di Israele: la frammentazione politica e sociale, il peso corrosivo dell'occupazione, il distacco della Diaspora dal sionismo, la crisi economica, il logoramento dell'apparato militare, l'inefficienza della macchina statale e l'emergere di una nuova generazione di palestinesi resistenti. La seconda sezione è molto propositiva. Per lo storico, le sette fragilità rendono urgente un processo di decolonizzazione basato sulla giustizia riparativa, una trasformazione radicale dei rapporti tra ebrei e palestinesi sul piano della coscienza storica, del diritto e dell'assetto politico. Solo da questa base, sostiene Pappé, si potrà costruire un futuro di reale uguaglianza. Non si tratta di espellere o punire gli ebrei israeliani, ma di renderli parte integrante del nuovo tessuto politico e culturale: una continuità etnolinguistica tra le altre, riconosciuta in diritto e dignità. Per il docente di Exeter la formula "due popoli, due Stati" è da superare.
La chiave di volta dell'opera: la formula "Uno Stato, due popoli"
Uno dei fili conduttori dell'opera di Pappé è il rilancio della formula "Uno Stato, due popoli". Nella prospettiva dello storico israeliano, si intravedono "in nuce" tre assi portanti che la strutturano. In primo luogo, l'enorme numero di coloni ebrei presenti nei Territori occupati, oggi una forza politica decisiva in Israele, rende impossibile uno Stato palestinese veramente sovrano. Uno eventuale Stato palestinese, in queste condizioni, resterebbe subordinato a Israele. Secondo: lo smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania implicherebbe spostamenti di popolazione su scala massiccia, con costi umani e politici devastanti. Infine, è impossibile togliere territori a tutti i coloni, e ai palestinesi rimarrebbe inoltre solo un quinto delle terre natie. Una visione che, per prospettiva storica e ampiezza di vedute, l'autore di queste righe riconosce come la più aderente alla realtà. È necessario ampliare i tre punti, riplasmati dall'autore del presente articolo. Tra storia e attualità.
Quei coloni che hanno conquistato Israele
L'impraticabilità a cui Pappé si riferisce nasce a partire dal 1967 quando, con la guerra dei Sei giorni, Israele conquistò Cisgiordania, Gaza, la penisola del Sinai e Gerusalemme Est. Nelle terre occupate si insediarono le prime colonie israeliane. La guerra dello Yom Kippur del 1973 indebolì i laburisti e la destra nazionalista si rafforzò. Il fenomeno coloniale divenne strutturale nel 1977, con l'arrivo al potere del Likud di Menachem Begin. Vennero alla ribalta i partiti ultraortodossi e ultranazionalisti: la voce politica dei coloni. Dal 1977 al 1987 il numero di israeliani in Cisgiordania da 10mila salì a 70mila. Alla vigilia degli Accordi di Oslo del 1993 il numero era salito a più di 130000. Alla fine del 2024, erano circa 503000 i coloni israeliani in Cisgiordania e 233000 a Gerusalemme Est, per un totale di almeno 736000 coloni oltre la Linea Verde del 1967. E sono distribuiti in più di 140 insediamenti e circa 220 avamposti nella Cisgiordania occupata. C'è, inoltre, un fatto che rafforza la prospettiva di Pappé. L'11 settembre di quest'anno, il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha firmato il cosiddetto Piano E1, un progetto di espansione degli insediamenti in Cisgiordania. L'espansione di Maale Adumim e la creazione di una continuità territoriale tra l'insediamento e Gerusalemme occupata costituiscono un atto politico e militare, prima ancora di un'operazione urbanistica. Il progetto mira a frantumare la Cisgiordania in isole scollegate, dividendo in due la Cisgiordania occupata e separandola da Gerusalemme Est. Se completata, sarà fisicamente impossibile un territorio palestinese continuo nord-sud. Anche se nascesse formalmente uno Stato palestinese, esso non eserciterebbe un controllo reale sul suo territorio: le colonie resterebbero sotto la giurisdizione israeliana e Israele manterrebbe il controllo delle vie di comunicazione, dello spazio aereo e dei confini. Senza contare che, attualmente, i palestinesi dipendono da Israele per l'utilizzo di risorse fondamentali come l'acqua e l'energia.
Ostacoli ai trasferimenti di massa: tra evidenze e limiti storico-politici
L'unico precedente israeliano di evacuazione forzata di rilievo è Gaza. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2005, su ordine del Primo ministro Ariel Sharon, lo Stato ebraico iniziò a evacuare 8000 coloni dal Gush Katif e da altri insediamenti. Fu un'operazione difficile a livello logistico, accompagnata da forti proteste interne e da un trauma politico per il Paese. Molti di quei coloni non furono mai pienamente reintegrati e la destra israeliana ne fece un simbolo del "tradimento" del Governo Sharon. Ora, si moltiplichi quella scala per oltre 60 volte: da 8000 a più di 500000 persone. Servirebbero nuove abitazioni, infrastrutture e indennizzi su scala nazionale. Ne deriverebbe una frattura politica interna senza precedenti. I coloni rappresentano ormai un blocco ideologico saldamente radicato, la cui influenza non è solo politica, ma pure economica, militare e religiosa. In termini demografici e logistici, sarebbe il più grande trasferimento di popolazione nella storia israeliana: è semplicemente irrealistico. Un tentativo mai provato nemmeno dai Primi ministri considerati più moderati verso i palestinesi: Shimon Peres, Yitzhak Rabin (laburisti) ed Ehud Olmert (centrista). Peres non congelò le costruzioni né propose un smantellamento massiccio, anzi. Nel suo primo mandato formalizzò che lo sviluppo degli insediamenti già stabiliti fosse garantito e che nuovi insediamenti sarebbero stati avviati. Rabin si impegnò a frenare gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, ma il loro destino non fu discusso nei negoziati di Oslo e fu rimandato indefinitamente. Il 16 settembre 2008 Olmert, nel progetto che presentò al presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, si limitava a prevedere l'evacuazione di dozzine tra gli insediamenti più piccoli. Infine, il tema del "trasferimento" apre un dilemma: per riparare all'ingiustizia subita dai palestinesi, non si incapperebbe in un'altra, dato che centinaia di migliaia di israeliani vi sono nati e cresciuti, anche se in colonie illegali secondo il diritto internazionale?
Senza continuità territoriale e con un quinto del territorio ancestrale
La soluzione dei "due Stati" è una formula diplomatica senza corrispettivi geografici e politici reali. Le colonie sono una rete frammentata di insediamenti, strade e zone militari che spezzano la continuità geografica palestinese. Il 29 novembre 1947, la Risoluzione 181 del piano di partizione dell'Onu assegnava agli ebrei circa il 55% della Palestina mandataria, anche se possedevano solo il 6-7% delle terre. Dopo la guerra del 1948, Israele controllava circa il 78% del territorio. Cisgiordania e Gaza costituirono quel 22% residuo che è la base della proposta "due popoli, due Stati". Una formula che parte già da una posizione di ineguaglianza storica. Accettare solo il 20% delle terre è da considerarsi come un'amputazione permanente. Un eventuale Stato palestinese avrebbe controllo effettivo su meno del 10-12% del territorio della Palestina mandataria. Con tale retroterra alle spalle, la formula in questione suona come un'ingiustizia istituzionalizzata. Uno Stato è riconoscibile come tale quando è abitato da una popolazione stanziale, si estende su un territorio definito, ha un governo e può intrattenere relazioni internazionali. Sono i presupposti fissati all'articolo 1 della Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati del 1933, riconosciuta nel mondo come base per definire uno Stato. Due di questi requisiti - i confini e il governo - mancano nei territori arabo-palestinesi. A Gaza, Hamas fu votato nelle elezioni del 25 gennaio 2006, ma il diritto di governare Gaza è scaduto nel 2010. Hamas è riconosciuto da molti Paesi come terrorista e il governo dell'ANP in Cisgiordania è incapace di agire: due fattori che impedirebbero allo Stato di intrattenere stabili relazioni internazionali. Con la creazione dello Stato di Palestina, inoltre, gli arabi con passaporto israeliano che attualmente vivono all'interno dei confini di Israele potrebbero trasferirsi nel nuovo Stato. Ne deriverebbero due entità nazionali - Palestina e Israele - etnicamente pure. E il Novecento ha mostrato indubitabilmente, in altre aree del globo, quali siano le tragedie collettive causate da questi scambi.
Sinistra in revisione
La parte finale dell'opera di Pappé riserva sorprese inaspettate oltre la questione palestinese. Per questo motivo, alcuni passi meritano di essere riportati per intero. Scrive lo storico: «Nel mondo arabo e in molte altre parti del pianeta collaborare con il mosaico di gruppi, comprenderne i confini porosi e la fluidità e l'importanza che rivestono per le persone aiuterà la sinistra a riconnettersi con le aspirazioni e le preoccupazioni della gente». E ancora: «La centralità della classe sociale nel determinare tutto, significa che chi è interessato alla giustizia sociale porrà l'accento sull'identità di classe anziché sull'identità di un gruppo più piccolo e con interessi particolari all'interno di quella classe». Ma «le identità collettive rappresentano un nodo chiave per orientare le relazioni sociali». Dunque, «la sinistra deve riconoscere il mosaico di collettività che nella vita delle persone riveste un ruolo significativo al pari della classe sociale a cui esse appartengono». Pappé, uomo radicalmente di sinistra, scrive questi passi in relazione al contesto arabo-palestinese. Ma chi legge con attenzione si rende conto che lo storico - seppur involontariamente - rivolge un invito di riforma ideologica a quella fetta di sinistra occidentale - minoritaria, ma ancora vitale talvolta - critica verso il modello liberal-capitalistico dominante. La tradizione di sinistra, nata dall'universalismo illuminista, ha faticato molto a cogliere appieno il portato antropologico di elementi come il legame con il territorio, l'appartenenza a una comunità-nazione e l'adesione a un ethos di tradizioni e di costumi. Pur esistendo in Marx - sulla scia di Hegel - una base teorica capace di riconoscerli, questi aspetti sono stati marginalizzati dall'interpretazione positivistica del socialismo scientifico. Un paradigma decisamente incapace di cementare un legame duraturo con le comunità sociali. Una debolezza che emerse quando i partiti socialisti non riuscirono a contrastare l'ondata nazionalista che travolse l'Europa alla vigilia del 1914. Questo senso etico di identità e legame è ancora visibile negli scritti di Antonio Gramsci e Pierpaolo Pasolini. Dopo il '68, però, l'anima più libertaria e centrata sull'individuo prende il sopravvento nella sinistra, rimuovendo dall'orizzonte politico l'idea di comunità. Pappé invita la sinistra - non solo arabo-palestinese - a riattualizzare questo portato, vitale soprattutto nella tradizione ideal-comunista che precede Marx. La sinistra occidentale saprà dare ascolto a Pappé? Ne avrebbe un gran bisogno.
Di Roberto Valtolina