“Vuoto d’essere”, un breve scritto polemico sui paradigmi deteriori dei tempi attuali, con una lirica in calce
Vedo questi pensieri post mortem, nella formaldeide di circostanze mercuriali, cucire brano a brano un esonero dall’esistente: escrescenza di stentoreo grido d’osservanza
Vedo questi pensieri post mortem, nella formaldeide di circostanze mercuriali, cucire brano a brano un esonero dall’esistente: escrescenza di stentoreo grido d’osservanza.
Le sembianze note dilavano, il centro pulsante esce dal solco del suo battito.
I giardini del pensiero muoiono tra ortiche e malerbe sotto un sole di facili evidenze che estinguono ogni traccia di Sacro con amanuensi trascrizioni di verità surrettizie e fatti desunti.
Abbiamo dichiarato morto Dio solo per poter giungere a sancire la morte di ciò che è umano. Piccole derive erranti sono scudisciate dai marosi di logiche oblique e inadatte.
Un vuoto spinto è asettico. Un pugno chiuso non accoglie… E noi abbiamo fatto spazio a un vuoto d’essere e serrato i pugni in una destinale asfissia d’ogni pietà.
Taluni vestono un ruolo, taluni una divisa, taluni idee simili a altrettante ipostasi, altri un dogma, altri un sorriso affilato, altri ancora ciò che conviene e si conviene giusto. Le minoranze non sono mai state così silenziose, come in questo baccano numerale.
Adempienze eterograde, vuoti gusci di parvenze esanimi e una vincente forma di disfatta, dettano rune di morte e dannazione ad ogni forma d’identità che non sia grossolana e omologa di un pensiero non pensante.
Affaristi del pensiero e propalatori di cultura impagliata che vendono polvere, innovatori al soldo del regresso, mezzibusti dell’informazione, piazzisti di opinioni, elaboratori di fatue celebrazioni iconiche, programmatori di linguaggio, uomini di scienza brucianti di dogma, ingegneri sociali, gestori di informazioni, sviluppatori informatici, politicanti vacanzieri, corrotti, di rifinita ignoranza e interposta presenza, avete ucciso il Sacro in ogni sua forma; e se lo rivendico mi dite zotico e difensore del pensiero magico: proprio voi che vendete neo-superstizione secolarizzata, mercato per scienza, scienza per mercato, e scienza di mercato. Io vi dico: ho nostalgia infinita di una qualche morale, di un pensiero che non sia alambicco metafisico, ma neanche rozza celebrazione dell’utile, del profitto e dei suoi paradigmi. Ho bisogno di una religiosità senza Chiese, di una forma di pensiero che non ha fregola di prendere posizione in maniera meramente optante, non sposa vedute preconfezionate, ma crea sorgivamente atti di autocoscienza e bandisce il mercato che si fa delle opinioni rivendicando una scelta singolare e intrinseca, non eteronoma.
Quando un luogo coincide con la sua mappa, la mappa è perfetta e perfettamente inutile.
Quando l’umanità è spacciata per traccia di debolezza, ogni sguardo trafigge il vuoto, ogni nuovo pensiero è muffa, ogni muffa spacciata per nuova, il nuovo un abbaglio mortifero e l’antico inutile a un nuovo così fatto.
Il poeta tirava di scherma
Sotto spesse nuvole d’alabastro, nella bruma,
alla fatale ora delle prime rugiade,
può giocare brutti scherzi l’elevazione a potenza
di questo certame interiore,
del dissidio di nomi, volti e circostanze –
corda lacera tesa tra gli estremi
di un dualismo della volontà:
incendiata aporia della scelta
affoltata di spettri beffeggianti.
Ore, adesso, che stemperano ogni audacia,
esangui come corpi stesi su gelide lastre,
sotto una luce che li candisce
e trae riflesso dagli occhi opachi.
Dove giace la parola del poeta?
Chi pronuncerà i suoi idoli
e le sue succinte preghiere?
Chi vedrà l’arco perlaceo tra le sue due rose?
Il mattino è un sacrario di assenza
e di mute forme
in bilico sui malcerti perni del Tempo.
Odo parole mai pronunziate
distendersi come mare su una riva,
per poi ritrarsi, e fare il verso all’infinito,
col medesimo gesto di sempre.
Vedo ossari di poesie detenere un opaco trionfo
che il trascorrere dei Secoli succhia come midollo.
Vedo il petto trafitto,
e la spada mordace, affondata fino all’elsa,
ritrarsi,
e il sangue svanire come un sussurro
nel ruggire del vento.
Quante ferite e carezze: carezze come ferite,
e ferite simili a carezze,
che si schiudono e gemmano, e depongono
le loro linfe – tra martirio e guarigione –
ai piedi dei pagani altari del progresso:
impillaccherata, frusta mendacia
in forma di fatuo splendore di dono e promessa.
Chi ricorderà il poeta nella sua stanza? –
Rondine posata dalle ali impazzite.
Chi aprirà lo scrigno dei suoi tesori,
senza deridere i suoi tesori di latta e stagno?
Sotto compatte nuvole d’alabastro, a bruma diradata,
nell’ora inspessita da un sole che si svela,
può giocare brutti scherzi la parola del poeta,
la maga forma del suo esilio
incoronato da una natura artificiale e scellerata,
il suo tirare di scherma
alle soglie di ciò che è già Passato,
non il nostro, ma quello di altri ed altri prima –
o è davvero poca cosa quando volano droni,
ordigni vecchi e nuovi scoppiano sangue antico
fin nei gangli della civiltà come ai suoi suburbi,
e satelliti dispacciano ogni forma
di sussistere, parola e connotato?
Questo, laddove un Tempo ormai obliato
aveva decretato fitto mistero –
fuori da questo simultaneo orrore senza tregue –
e forse perfino un qualche ingenuo scrupolo
o senso del limite.
Ahi poeta che sfioravi i nembi,
tu che dissipasti te stesso assieme a ogni morale,
Oggi, ne invocheresti una purché fosse.
Di Massimo Triolo