"Morti premature": piccolo racconto dannato, dedicato a Karel Čapek e tratto dalla raccolta di racconti “Raso rosso” di Massimo Triolo (Eretica, 2020)
Qualche giorno avanti, i due avevano stabilito un semplice patto: Giuseppe era stanco di vivere, il becchino sapeva solo scavare, entrambi seguirono ciò che avevano in sorte di compiere
Quando i parenti più stretti fecero per ritirarsi, anche gli altri propinqui, con gli amici cari ed i conoscenti, gli fecero coda. Lentamente tornò la quiete e rimase solo il padre a vegliare le esangui spoglie della figlioletta.
Due settimane, due settimane di dolorosa, esausta malattia e poi Adele li aveva lasciati tutti. Un attimo prima di morire, col piccolo pugno – lo stesso che il padre aveva tenuto nel suo in tanti attimi di tenerezza – stringeva il ciglio del letto, e ad ogni suo spasmo di dolore lui serrava il labbro sotto gli incisivi trattenendo le lacrime che premevano da dentro per erompere, carezzandole la fronte madida di sudore, calda come una brace, e tamponandola dolcemente con un fazzoletto inumidito – che non bastava, però, a stemperare la cocente febbre, per quante volte lo imbevesse di acqua fresca e lo passasse e ripassasse sulla pelle della piccola. Ora vedeva la lugubre, fissa maschera della morte nell’amato viso di Adele, ossuto e quasi irriconoscibile, gli occhi vetrigni circondati da un alone rossastro e l’angolo sinistro della piccola bocca abbassato a scoprire leggermente i denti in una smorfia di sofferenza che nell’agonia degli ultimi istanti aveva dettato quelle sembianze da animaletto morto alla sua espressione.
Il giorno seguente la veglia, tornò a fare visita il decano del villaggio, col vangelo stretto in pugno e lo sguardo benedicente, a passi stretti, si approssimò al capezzale e poggiando la mano sulla schiena curva e singhiozzante del padre, tentò di convincerlo a staccarsi dalla salma. Lui si ritrasse con violenza e gli bestemmiò contro. Il suo sguardo stravolto e iniettato di sangue, umido di lacrime amare, la fronte aggrottata, le folte sopracciglia stropicciate ed un ringhio che mutava in rantolo, lo facevano simile ad un animale selvatico che fosse stato aspramente ferito, e convinsero il curato a lasciarlo fare; ad ogni modo sarebbero presto tornati a reclamare la salma per procedere alla sepoltura.
Fuori, il sole splendeva di spudorata voluttà primaverile, il polline giocando festoso per l'aria ed i bimbi del rione giocando a rincorrersi per le viuzze attorno alla casa completamente serrata nelle tenebre del lutto. Oltre le persiane, rimaste chiuse fin dai giorni precedenti, filtravano lamine luminose, tagliando di netto la figura in lutto, ricurva nell'ombra, di lato al letto.
Si alzò per schiudere le finestre di camera e al suo passaggio si spensero i ceri, ormai quasi del tutto consunti, che l'avevano accompagnato nella lunga veglia. Qualcuno bussò piano alla porta: era l'anziana domestica che giungeva come ogni altro giorno a domandare del pranzo. Con un gesto burbero la ricacciò fuori.
Frattanto suonavano le campane ad annunciare la fine dell'ultima messa domenicale e tutti i compaesani si ritiravano nelle case stipate, dove trascorrevano vite appartenenti un po' all'uno e un po' all'altro in una malsana commistione di sentimenti meschini, arroccati nella miseria di spazi angusti e chiuse menti, che da sempre non trovavano respiro e intossicavano anche i cuori.
Per quel giorno, nessuno più avrebbe disturbato Giuseppe, il padre della piccola defunta.
Passarono altri due giorni senza che nessuno potesse avvicinarsi alla salma che Giuseppe continuava a custodire gelosamente, lontano da quanti la volessero inumare. Si era barricato in casa e aveva scacciato la domestica, che dalla nascita della figlia gli era sempre stata a fianco. Al terzo giorno, “il farmacista” – così lo chiamavano in paese, anche se aveva già abbandonato quella professione – decise di comporre un particolare preparato per imbalsamare la bimba.
Sgombrò la cameretta dal mobilio e ne fece un piccolo laboratorio, per poter continuare a vegliarla mentre le preparava l'imbalsamatura. Lavorò giorno e notte senza posa e quando il sindaco in persona entrò di forza nell'abitazione, tutto era già compiuto e la figlia poteva sfuggire alla sepoltura.
Rimasero tutti con un palmo di naso e quando espresse fermo desiderio di tenere il corpicino nella cameretta, tutte le genti del paese presero ad evitarlo mormorando alle sue spalle della sua malsana scelta e della pazzia che l'aveva colto.
Le voci, in breve tempo, si erano sparse. Erano venuti anche dalla città, per ammirare la salma della piccina, ancora intatta a un anno dalla morte; non sempre riusciva a tenerli lontani dall’abitazione, e quando raccogliendosi in garruli capannelli all’ingresso dell’abitazione, gli chiedevano la formula del “miracoloso” preparato da lui realizzato, mandava tutti al diavolo apostrofandoli in malo modo... Ma questo a poco serviva, continuavano ad arrivare come per un macabro pellegrinaggio.
Certo, si dicevano le comari del paese, di quattrini ne aveva già in abbondanza: per questo si era ritirato dal mestiere, dieci anni prima. Non aveva certo bisogno di vendere la formula del composto. Aveva un consistente gruzzo da almeno quindici anni, ma aveva proseguito a lavorare in vista della ventura nascita che gli avrebbe, poi, sottratto la vita della moglie.
Come da vecchia consuetudine, usciva per camminare lungo la strada costeggiando il fiume, là dove aveva compiuto con la figlia, mano nella mano, lunghe e serene passeggiate.
Poi, finita la camminata, tornava a casa e ascoltava la musica che entrambi preferivano, quella del maestro Musorgskji, e mentre l'ascoltava guardava in posa estatica il rasciugato sembiante della bimba esattamente come fosse ancora animato di vita e potesse comunicare con gesto e favella. Lui la vedeva sempre uguale a quella che era stata, la bella figlia che cresceva somigliando viepiù alla perduta madre. Aveva perduto la moglie, pochi giorni dopo il travagliato parto, nella stessa casa che erano venuti a abitare subito dopo il matrimonio.
In vista del suo ultimo compleanno, aveva promesso ad Adele di comperarle una bicicletta, perché potessero fare gite e escursioni oltre il paese; ma la bimba era mancata prima di poter compiere i nove anni, e aveva sempre conosciuto solo gli spazi angusti di quelle quattro casette sfilacciate... Adesso, ogni volta che ripensava al sorriso largo e luminoso che le campeggiava in volto, quando le ricordava la promessa, una morsa di dolore stritolava il suo cuore.
Ad un anno dalla morte della figlia, aveva perso la fiducia e l’assidua, popolana benevolenza della domestica, a seguito dei ripetuti maltrattamenti che le aveva fatto subire ed era rimasto solo a sdilinquirsi davanti alla salma che riposava fra le pareti turchine della cameretta, bevendo come una spugna e trascurando da troppo tempo di mangiare, lavarsi, mettere ordine in casa – che adesso aveva un aspetto sinistro e caotico. Il prossimo compleanno – lui e Adele erano nati lo stesso giorno dell’anno – l'avrebbe festeggiato da solo, ma non si sarebbe scordato della promessa fatta a Adele: la figlia aveva memoria di ogni più piccola cosa, figurarsi se avrebbe dimenticato la promessa che il padre le aveva fatto nell’aria lene e profumata di una sera stellata di maggio, su di una sedia a dondolo, lei sulle sue ginocchia, al frinire dei grilli sotto il porticato di casa – perfettamente smaltato di un onesto bianco che era penosamente ulcerato e lasciato all’incuria –, prima di addormentarsi nella sua cameretta satolla di tenerezze come un’ape di polline...
Quando il ciclista vide avvicinarsi al negozio la pingue figura di Giuseppe, un moto di compassione mista a ripulsa lo investì come un’ondata; dai vetri dell’ingresso, unti di grasso e polverosi, lo vedeva avvicinarsi col passo di un escluso che viveva di ricordi in un mondo a lui estraneo, e sembrava odiare aspramente ogni uso e costumanza del villaggio. Quel sentimento che aveva continuato a legarlo alla figlia perduta lo rendeva alieno a tutto il resto; perfino quando erano giunti a fargli visita i parenti più cari, aveva rifiutato di accoglierli. E quando passava vicino alle case, le mamme correvano ad afferrare per le manine i bimbi che gli trotterellavano d'intorno – motteggiandolo e facendogli il verso – per sottrarli alla sua presenza; gli avevano affibbiato anche un soprannome: l'uomo nero, l’appellavano, perché vestiva sempre di nero.
Se ne uscì dal negozio con la piccola bicicletta sotto braccio. Rossa l'aveva presa, come sarebbe piaciuta a sua figlia. L'aveva poi collocata accanto al lettino e aveva preso a bisbigliare certe nenie...
Riemerse intorpidito come da un sonno profondo, amaro in bocca, un cerchio alla testa, e strascicando i passi si avviò verso la sala per poi accedere alla cucina e prepararsi un caffè. In sala, urtò il ritratto della moglie, posto sopra un basso comodino e sotto il ritratto vide la lettera.
Si era dimenticato della lettera... Ma adesso era venuto il momento di aprirla, anche se sarebbe stato meglio il contrario. Prima di morire, la moglie, aveva raccolto le forze necessarie a scriverla di suo pugno, lasciandogli detto di aprirla solo quando la figlia fosse divenuta maggiorenne. Sapeva di dover morire, così aveva scritto la lettera e si era raccomandata di far seguire le sue raccomandazioni per l'apertura.
Adesso poteva aprirla. Era ingiallita e ricoperta degli scarabocchi che vi aveva fatto la piccola Adele; l'aveva rimproverata aspramente quando se ne era accorto.
Giuseppe adorato,
adesso che ti scrivo so di doverti lasciare, ma mentre lo faccio so anche che resterà al tuo fianco la bimba e questo mi riempie di gioia. Sento però il dovere di confessarti una verità che ti ho tenuto ingiustamente nascosta fino ad ora e se fossi vissuta accanto a te più a lungo, forse avrei continuato a tenere lontana dalla tua conoscenza. Adesso, però, urge che la sveli. Abbiamo passato assieme giorni felici che non potrò mai rimpiangere, ma anche attimi di profondo sconforto che ci hanno visto alla deriva per lunghi periodi tormentosi; ricordi il nostro asprissimo litigio di due estati fa? Dopo di allora e prima di poterci riconciliare, ho avuto con un amico una relazione segreta, che si è presto spenta... Ecco, io non posso essere certa che Adele sia tua figlia e bisognava che te lo dicessi, ma sappi che se anche così non fosse, tu rimarrai sempre l'unico uomo che ho saputo amare. È stato un grave errore e non so come parvi rimedio, ma imploro il tuo perdono e, per amore di Adele, scelgo che tu legga questa lettera solo a molti anni di distanza da ora, anche se avrei voluto poter raccogliere un tuo perdono prima di doverti lasciare per sempre.
Possa, la piccola Adele, essere la luce dei tuoi occhi, e Dio voglia che tu sappia perdonarmi, così potrò sempre vivere in cuor tuo.
Tua Anna
La prostrazione e l’esulcerante rabbia che quelle righe gli suscitarono, non erano descrivibili: si sentì tradito da un destino infame che si fosse come accanito pervicacemente sulla sua persona, e dalla donna che in vita aveva amato di un amore assoluto e votivo, certo di essere ricambiato fedelmente, e sicuro della condotta integra e irreprensibile che ella aveva sempre mostrato, e gli sembrava ora solo una beffarda illusione. Ma la cosa che più lo turbava e che scavava ogni sua fibra come un chiodo arrugginito, era il pensiero che Adele potesse non essere stata veramente sua figlia. In un accesso di rabbia furente fece a pezzi la lettera e si attaccò alla bottiglia.
Poche settimane prima della morte di Adele, Giuseppe aveva gridato animalescamente contro Laura, la domestica, perché si era dimenticata di spolverare le sue preziose anticaglie: “Valgono più della tua stupida vita, quelle!” aveva ringhiato con disprezzo. Gli rimanevano quei futili oggetti, ma gli mancava la presenza discreta di Laura, la quale da lunghissimo tempo aveva lavorato per la famiglia in modo prodigo e operoso, senza mai una lamentela o una richiesta di troppo, e avrebbe forse saputo recargli calore umano in un simile stato di abbattimento... Adesso, avrebbe gettato via ogni suo bene, se questo fosse servito a non restare solo in quella casa ammorbata da ricordi dolenti e, dopo la morte di Adele, a lui perfino irriconoscibile.
L'alto campanile – sovrastando ogni tetto, ogni casa in cui erano albergate e da sempre albergavano grettezza e stolida meschinità, vite ossequiose ai sermoni di chiesa ma sorde agli altrui dolori –, raccoglieva i giochi di luce che repentini sbocciavano fra nubi cineree.
Due sagome curve, l'una tozza, l'altra segaligna e dinoccolata, incespicavano fra le pozzanghere d'acqua piovana, che scendeva copiosa; la luce fioca e danzante di un lumicino a petrolio guidava a singhiozzi il loro cammino sul selciato. Il becchino aveva di fianco Giuseppe, a incalzarlo con domande ansiose; i due si erano avviati a notte fonda verso il cimitero, col rischio di essere scambiati per profanatori di tombe, e la presenza del becchino al suo fianco rassicurava solo in parte l'animo agitato di Giuseppe.
Arrivati che furono dentro il cimitero, il becchino, con meticolosità e turgidi gesti, ne illustrò assurdamente l'intero apparato, che a suo dire era “unico nel suo genere e rimasto invariato per foggia da secoli”; Giuseppe neanche gli badava: aveva i capelli fradici, il volto sudato, lavato via del proprio naturale colore dalla fredda pioggia, l'espressione selvaggia e spiritata di chi ha passato notti insonni in compagnia dell’alcol, la fronte aggrottata e sporca di fango, il respiro affannato che troncava ogni parola che facesse per uscirgli dalla bocca aperta e scorrere sulle labbra enfie e livide.
La tomba era ancora da scavare, il terreno era stato marcato dal becchino la sera prima con una croce, ma un vento possente e la molta pioggia avevano trascinato via la croce e cancellato il segno.
Qualche giorno avanti, i due avevano stabilito un semplice patto: Giuseppe era stanco di vivere, il becchino sapeva solo scavare, entrambi seguirono ciò che avevano in sorte di compiere; “Uno più, uno meno", così aveva risposto lo scavafosse all’insana richiesta “mortuaria” dell’uomo senza più una famiglia né desiderio di vivere... Era fatta, tutti e due sapevano quel che volevano: Giuseppe aveva preso il pallino per certe ricerche chimico-farmaceutiche, dopo la morte della figlia, ed era riuscito a mettere a punto un preparato che, a suo attento giudizio, era in grado di portare lentamente alla morte nel torpore del sonno, senza dolore, con un lieve effetto allucinogeno. Si sarebbe fatto seppellire dal becchino, dopo essersi inoculato il composto di sua invenzione; pochi minuti ed avrebbe conosciuto una morte senza dolore, scevra di paura e rimpianti. Se qualcosa fosse andato storto, Giuseppe non aveva che da battere tre colpi dentro la cassa e il becchino l'avrebbe riesumato all'istante. Aveva pensato lungamente al suicidio, passando in rassegna nella sua mente stravolta le diverse tipologie di attuazione, anche le più bizzarre e macchinose; ma era giunto alla conclusione che se si fosse suicidato in altre circostanze, che non quelle previste dall’accordo, la cosa sarebbe risultata uno scandalo e non gli avrebbero concesso di essere sepolto in terra consacrata, accanto alla salma della sua figlioletta. Questo suo piano rappresentava un lene compromesso.
Dopo aver cominciato a dar grosse vangate, lo scavafosse si fermò e, chino com'era sulla buca appena sbozzata, guardando verso l'anima persa che aveva di lato, disse: – Solo un minuto, anche noi becchini siamo di carne e ossa... Torno subito, – e dette che ebbe queste parole, si avviò verso i cespugli fronzuti che circondavano lo spiazzo.
Giuseppe, stordito, scosso da brividi violenti, rimaneva fermo dov'era con le braccia avviticchiate attorno al busto, pesticciando con i piedi marmati il suolo fangoso.
Dopo una manciata di minuti che sapeva d'eternità, il becchino si rifece vivo sbucando dai cespugli come una lepre in corsa; strinse di nuovo la vanga, ricominciò a scavare.
Finita l'opera, rimase a squadrare la fossa con la vanga fra le mani, poggiandovi tutto il peso del corpo. Ecco fatto, adesso poteva aprire la bara e seppellire Giuseppe. Questi si iniettò il preparato e si mise lungo disteso nella cassa; il legno gemette ed il becchino calò le corde. Subito Giuseppe tirò un lungo sospiro e chiuse gli occhi.
Un lampo illuminò il cielo carico di nuvole, sopra lo spazio di nicchia nel quale veniva calato; poi il fragore del tuono e il coperchio della bara che si richiudeva. Una foglia cadente fece in tempo ad entrare con lui prima che l'oscurità venisse ad avvilupparlo.
Adesso albeggiava e l'accordo, per il becchino, era di rimanere a vegliare sulla fossa ricoperta a mezzo, sinché non fosse sorto il sole; dopodiché avrebbe proseguito a riempirla di terra e se ne sarebbe andato con un bel mucchio di soldi in tasca.
Era davvero una cosa curiosa: il siero sembrava aver sortito l'effetto sperato solo per metà, le allucinazioni erano cominciate quasi all'istante, la sudorazione incrementata e così i battiti del cuore; ma l'effetto soporifero tardava ad arrivare.
Intimorito, Giuseppe deglutì tre volte e fece per picchiare con forza sul legno della cassa da morto ma non riuscì a muovere un solo muscolo; ritentò più e più volte, ma non ottenne che un formicolio turbinoso e diffuso. Era rimasto paralizzato e non sapeva quanto sarebbe durato; era in gioco la sua fine, una fine insostenibile e atroce e non riusciva a schiodare un solo dito, così come non poteva gridare: la bocca serrata in una smorfia parossistica, i denti che stridevano gli uni sugli altri.
Il sole era già completamente sorto, benché Giuseppe non potesse davvero immaginare quanto tempo fosse passato dacché era sotterra; un tempo tanto più relativo in quanto l'effetto allucinogeno doveva aver ingenerata un'ulteriore distorsione immaginifica che rimaneva incalcolabile. Probabilmente, l'intensità degli attimi lisergici trascorsi sotto l'effetto del farmaco, gli aveva dato l'impressione che di tempo ne fosse corso a fiumi, mentre magari erano passati giusto pochi minuti.
Il becchino decise che non v'era bisogno alcuno, oramai, di continuare ad aspettare; finì il suo lavoro e si avviò verso il paese pensando a come poter spendere nel minor tempo possibile quei soldi guadagnati male.
Di colpo Giuseppe ritrovò la voce, e le prime grida furono terrificanti, perché non nascevano in gola; avevano qualcosa di mostruosamente viscerale e dovette smettere di lanciarle, perché egli stesso ne provava terrore. Se il becchino fosse rimasto vicino alla tomba sino a quei truci istanti di pietra, se la sarebbe certo svignata a gambe levate.
vermi, fiori marci, dita tremule, lettera, passi, voci...
“L'odore di tabacco aromatico, mentre sto seduto sulle ginocchia di mio padre…”
qualcuno gratta, scricchiare sordo, tenebra, lamento, saliva, terra...
“…che fuma la pipa... E dalla cucina l'acciottolio rassicurante…”
schianti, pandemonio, ghigno, alba, sogno, rabbia, silenzio...
“… dei cocci nell'acquaio, le zanzariere mosse dal vento, l'amaca rossa in giardino...”
ringhio, oscurità, torcersi, spine, bestemmie, terra...
“…Il frusciare delle vecchie macine, il brusio di preghiere distanti contro angoli di casa...”
che cade - cade - cade, preghiera, bestemmia, presagio, buio
“… Tendine, bianchi ricami mossi appena da refoli, mare immoto, cristallino...”
unghie confitte, carne, sangue, afflato... Afflato...
“… Merenda, sì, sotto nudi rami in propaggini come reticoli contro il cielo di smalto...”
anelare, anelito, cadere, rinascere forse...
Figuri in nero, prete, bestemmie, vangelo...
“Merenda tra l’erba sopra polle dorate di sole… ma pallore... morte”.
Occhio vetrigno, sorriso
riflesso sghembo
Il becchino torna nel luogo della sepoltura assieme al partecipe del guadagno, il proprietario di pompe funebri, cui Giuseppe aveva corrisposto una considerevole cifra per avere a disposizione – senza troppe domande – una bara in legno di frassino uguale, per foggia e materiale, a quella più piccola della figlioletta che aveva fatto inumare la notte precedente, proprio accanto alla tomba che ora lui occupava. I due uomini, il mento madido di vino e un sadico ghigno in volto, irridono in ebbrezza, l'idiozia dell’uomo che gli aveva corrisposto un così alto compenso, per quell’incarico tanto stravagante e per il quale erano grati a loro stessi di non aver avuto alcuno scrupolo di coscienza. Ma il becchino si sente ora a disagio, avverte in quel suo comportamento qualcosa di artefatto: come fosse, lui stesso, un giocattolo caricato a molla. L’altro continua a ridere e a battere coi piedi sulla fossa oramai ricolma di terra; vi sputa sopra ringhiando con parole di disprezzo: – Se l’è voluto trascinare nella tomba, il segreto di quella sua imbalsamatura, la carogna schifosa!... Gli torcerei il collo con le mie mani se solo fosse ancora vivo. Che dite, m'avrebbe pagato bene come ha fatto col becchino? Certo di quattrini ne avremmo fatti se avesse reso nota la formula di quel dannato composto. Era matto ma dalla morte della figlia aveva cominciato a far girare le rotelle di quel suo cervello marcio... Comunque, lunga vita alle nostre pompe funebri, le uniche del villaggio, caro becchino... Lunga vita anche a noi. Brindiamo col vino pagato da un fesso, ma non per questo ha meno gusto! Dico bene, compare? –
Il becchino tace, non risponde, lo sguardo basso e torvo ciondolante sulla tomba scavata di fresco, di colpo non se la sente più di inveire e deridere… Pensa tra sé, amaramente, a quanto misera possa essere la vita e a quanto dolore privo del minimo senso essa ci abitui insensibilmente. Poi hanno la meglio le vecchie abitudini e preso sotto braccio il compare, scaccia come una mosca fastidiosa quel brutto sentimento, e si avvia in sua compagnia verso la taverna. Non gli resta che bere forte per annacquare un molesto senso di colpa, del resto ormai tenue.
di Massimo Triolo