“Per la critica della violenza” di Walter Benjamin, da “Angelus Novus” (1921): un testo con considerazioni ancora attuali e cogenti
La violenza divina avrebbe un carattere fulmineo, non sanguinoso e purificante. Bisognerebbe piuttosto distinguere tra una violenza che salvaguarda l’esistente come fenomenico e una che salvaguarda invece l’anima dell’esistente
Il discorso filosofico di Benjamin, se vogliamo entrare subito in medias res con alcune conclusioni che sono, nell’economia del saggio, finali, si fa sottile a un grado estremo e afferma che la violenza creatrice è indebolita da quella conservatrice, anche se entrambe testimoniano della forza coercitiva delle leggi e del loro valore repressivo. Ma creare qui significa instaurare senza monito pregresso, ovvero far valere la legge fondandola nella colpa come fato. Se il mito si pone come la legge del fato persino senza sussistere della legge stessa in veste antecedente all’atto che genera colpa, bisogna anche considerare che il divino che si esplica nei Comandamenti sia invece “mezzo puro”. Come nei personaggi mitici, però, si infligge sulla vita fisica mantenendo aperta la strada dell’espiazione, il Divino d’altro canto vincola alla sacralità dell’anima e non della “nuda vita”. La violenza conservatrice è quella del diritto odierno, ovvero condanna la violenza quando questa è orientata a dare vantaggio al singolo ed è fuori dalla misura del lecito, ma non condanna la violenza volta alla conservazione del diritto stesso, la sola a non avere per fine che il mantenimento di esso.
La violenza divina avrebbe un carattere fulmineo, non sanguinoso e purificante. Bisognerebbe piuttosto distinguere tra una violenza che salvaguarda l’esistente come fenomenico e una che salvaguarda invece l’anima dell’esistente. Scrive Benjamin: “Lungi dall’aprirci una sfera più pura, la manifestazione mitica della violenza immediata si rivela profondamente identica ad ogni potere giuridico e trasforma il sospetto della sua problematicità nella certezza della perniciosità della sua funzione storica, che si tratta quindi di distruggere.”
“Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue.”
Il carattere sacro della vita d’emblée non esaurisce e anzi esclude la comprensione delle distinzioni di Benjamin: “Non uccidendo non instaurerò mai il regno della giustizia… così pensa il terrorista spirituale… Ma noi affermiamo che ancora più alta della felicità e della giustizia di un’esistenza è l’esistenza stessa come tale.” È questa una tesi apocrifa a giudizio del filosofo tedesco, e anzi perfino ignobile: come falsa è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, che il non-essere dell’uomo è qualcosa di più terribile del non-esserci-ancora dell’uomo giusto. L’uomo sembra non coincidere in nessun modo, secondo Benjamin, con la “nuda vita” dell’uomo, almeno secondo i criteri che travalicano i confini sia di diritto giusnaturalistico che di diritto positivo. Non cercare la sacralità della vita nella sacralità cosmologica che essa ha perso è una aberrazione relativamente moderna. Ma se il mito condanna il portatore della “nuda vita” con la pena inflitta ad essa, esisterebbe una violenza volta alla violenza che esorbita la sfera della poiesi mitica del diritto; “se alla violenza è assicurata realtà anche al di là del diritto, come violenza pura e immediata, risulta dimostrato che e come sia possibile anche la violenza rivoluzionaria, che è il nome da assegnare alla suprema manifestazione di pura violenza da parte dell’uomo”.
Il divino non crea diritto, e il diritto è il discorso del suo anomico fondamento che afferma in modo creativo la legge quale fato. Essa divine un fato nel doppio senso di avere originariamente senso e ragione solo in sé e nell’impotenza di potersi opporre ad essa fuori da essa; di qui il potere conservativo e creativo assieme degli eserciti.
La “violenza mitica” è sanguinosa, come detto, sulla “nuda vita” e in nome della violenza stessa; la pura “violenza divina” invece sopra ogni vita in nome del vivente. La prima esige sacrifici, mentre la seconda li accetta. Il problema del diritto storicamente inteso è soprattutto la conservazione del suo statuto di esistenza ed efficienza. Dio non crea diritto ed è distruttivo solo relativamente ai beni, al diritto stesso, alla vita e simili, ma mai in rapporto assoluto alla vita del vivente come regno del sacro. Il comandamento “Tu non ucciderai” è prima dell’azione, come Dio guardi ad essa. Da esso non segue alcun giudizio sull’azione stessa: mancano la conoscenza sia del giudizio divino su di essa, che del suo motivo e fondamento.
La nuova epoca storica si basa sull’interruzione di un ciclo che si svolge nell’ambito delle forme mitiche, sullo spodestamento di esso assieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse ad esso), e cioè in definitiva dello Stato. Questa visione anarchica si sposa a quella messianica di Benjamin, e se lo Stato come le sue leggi regola la propria conservazione in termini pressapoco darwiniani, la forza emancipatrice e rivoluzionaria spezza e interrompe drasticamente sia il suo fondamento giusnaturalistico sia il suo fondamento positivo (l’uno legato ai fini e l’altro ai mezzi). Tutto ciò impone non solo la giustezza dei fini e dei mezzi, ma la tempestività storica, il quadro di ragioni che sono figlie di una ribellione verso il diritto, diritto che ha per fine se stesso e non ripudia mezzi che invece vengono imputati essere eccedenti in merito al singolo.
Il fato dunque caratterizza l’istituzione del diritto ma non annuncia il come diritto e coercizione giuridica possano essere distrutti, e imprigiona alla colpa il soggetto come causa singolare di essa. Il divino viene a essere la dissoluzione non-violenta analoga all’esempio, riportato più volte da Benjamin, dello sciopero generale della classe lavoratrice. Esso ha più a che vedere con l’Anarchia che con la creazione del diritto, detta ciò che la legge dovrebbe essere ma non è il diritto positivo che mantiene la legge attraverso la coercizione; unitamente a questo non è sottoponibile alla legge stessa.
Il comandamento di non uccidere sarebbe volto al non assassinare l’anima dell’essere in vita, ed essendo il diritto positivo colpevole proprio di tale assassinio, giustificherebbe la violenza volta alla dissoluzione di esso. Il discorso di Benjamin sulla pena di morte, così, non sembrerebbe volto solo alla salvaguardia della vita biologica, ma anche a una condizione (da dissolvere) assimilabile alla morte e indotta dalla colpa.
Qui come altrove il sacro è ciò che si oppone alla colpa e alla violenza giuridica e senza essere colpevole o espiato. In questo senso sono anarchiche le lotte sociali come lo è il singolo che si misura in una sfera intima con il significato dei comandamenti, là dove il comandamento non ha misure restrittive né è propriamente niente altro che un principio-guida non sostenuto da nessuna forza di polizia: ad esso non segue nessun giudizio sull’azione compiuta, che implica una cognizione di responsabilità, presso di essa, intima e personale; la legge non può invece che essere generale (così come nell’analisi di Deleuze, in “Differenza e ripetizione”). La responsabilità, quella vera, non sarebbe legata al marchio della colpa o all’espiazione ma al rispondere in senso stretto presso la scelta che non si misura su di esse. Essa è ben diversa dall’obbedienza coatta. Se il fato in origine è insensato (e creazionale) e genera sofferenza senza che si sia causa di essa, senza colpa (almeno in via mediata), l’elemento mediato (ciò che nel ragionamento non è detto “puro”) resta dietro l’angolo quando il mito crea il diritto positivo; esso riesce nell’intento di far sentire il soggetto responsabile della propria sofferenza nella vita, essa ha un nesso causale che coinvolge l’azione identificandola con la colpa. Così l’obbedienza coatta mina il confronto intimo, solitario, con la domanda etica che viene posta (essa per intenderci risulta assai pavloviana e manifesta una contiguità tale di causa ed effetto da renderli quasi puntiformi).
Quello che qui viene celebrato, come altrove, è l’eternità della transitorietà della vita, per cui il senso messianico è quello di un ritmo di ricorrenti tramonti che mettono in relazione sofferenza e morte con un concetto meno narcisistico di esse, diffuso e ricorrente, così come condiviso; l’espiazione non è più un discorso punitivo sulla “nuda vita” e la felicità non più qualcosa di insulare, ma un cammino collettivo e un diritto da rivendicare come corpo estraneo alla legge positiva. Del resto il diritto legittima la violenza in difesa della legge, attraverso essa esso la instaura e conserva. Così v’è un parallelo tra il soggetto che lotta intimamente contro un comandamento (il più paradigmatico è il quinto) e la massa che si rivolta contro lo Stato. Rifiutando così di essere complici del diritto a mezzo di una facoltà deliberativa che da sé sola basta alla dissoluzione della legge. Il diritto come manifestazione squisitamente storica dura nei suoi caratteri fino al momento “in cui nuove forze, o quelle prima oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a nuova decadenza”. E’ un ciclo che deve rompersi, un’alternanza destinata anch’essa a tramontare, là dove abbia corso la forza e il potenziale rivoluzionario di dissoluzione.
Benjamin afferma che “…. solo la violenza mitica, e non quella divina, si lascia riconoscere con certezza come tale; salvo forse in effetti incomparabili, perché la forza purificante della violenza non è palese a uomini. Di nuovo sono a disposizione della pura violenza divina tutte le forme eterne che il mito ha imbastardito col diritto. Essa può apparire nella vera guerra come nel giudizio divino della folla sul delinquente. Ma riprovevole è ogni violenza mitica, che pone il diritto, e che si può chiamare dominante. Riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrativa, che la serve. La violenza divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la violenza che governa”. Va chiarito che qui non si designano le azioni dei governi: governare è inteso in contrasto al termine “dominante” e come capacità razionale di gestire.
La transitorietà di ogni esistenza e delle potenze storiche in gioco non porta che all’accesso a una dimensione del sacro che è all’opposto dello Stato e delle sue leggi, all’opposto della violenza che esso perpetra su ciò che vi è di più inviolabile. Questa dimensione sacra si espleta anche in ciò che è collettivo e condiviso (non come assenso comune alla realtà quanto come la comune condizione di essa).
In riferimento a Sorel, dice Benjamin: “… sembra che Sorel sfiori una verità non solo storico-culturale, ma metafisica, quando avanza l’ipotesi che, agli inizi, ogni diritto sia stato privilegio dei re e dei grandi, in una parola dei potenti…” Si interroghi a questo proposito Nietzsche. E aggiunge: “E questo esso resterà, mutatis mutandis, finché sussiste. Poiché dal punto di vista della violenza, che sola può garantire il diritto, non c’è eguaglianza, ma, nella migliore delle ipotesi, poteri egualmente grandi… L’atto della fissazione di confini è importante, per l’intelligenza del diritto, anche sotto un altro aspetto. Confini posti e definiti restano, almeno nelle epoche primitive, leggi non scritte... L’uomo può superarli senza saperlo e incorrere nel castigo. Poiché ogni intervento del diritto provocato dall’infrazione di una legge non scritta e non conosciuta è, a differenza della pena, castigo. Ma per quanto crudelmente possa colpire l’ignaro, il suo intervento non è, dal punto di vista del diritto, una caso, ma destino, che si mostra qui – ancora una volta – nella sua ambiguità piena di disegno”. Sarebbe il destino, motivo di una cognizione a cui non si può sfuggire: quella per cui “sono i suoi stessi ordinamenti che sembrano occasionare e produrre questa infrazione, questo distacco”. Sembra che ogni regolamento di conflitti privo di violenza, non possa sfociare in un contratto giuridico. Poiché esso, per quanto conclusosi pacificamente tra i contraenti, conduce sempre a una possibile violenza. La sua giustificazione sta nella violazione del contratto da parte di un contraente. Ma non solo il risultato, anche l’origine di ogni contratto rinvierebbe alla violenza: in altre parole, se viene meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade. È il caso della democrazia parlamentare, per Benjamin (discorso così sottile da divenire sdrucciolo: si pensi al fascismo), essa presenta il noto, triste spettacolo, perché non è rimasta consapevole delle forze rivoluzionarie a cui deve la sua stessa esistenza. Mancherebbe, ai parlamenti, il senso della violenza creatrice di diritto che è rappresentata in essi. Ma i loro “compromessi”, benché ripudino ogni violenza aperta, sono pur sempre un prodotto compreso nella mentalità della violenza, perché l’aspirazione che porta a tali compromessi non è motivata da sé medesima, ma dall’esterno, e cioè dall’aspirazione opposta; è il caso del “meglio sarebbe altrimenti”: esso conserva tutto il suo grado coattivo.
È possibile il regolamento pacifico dei conflitti? Qui Benjamin sembra disegnare una apologia dei mezzi non violenti e l’esempio più calzante è la conversazione considerata come tecnica di civile intesa. In essa si manifesta la sostanziale impunità della menzogna, e la sfera dell’intendersi è a tal punto scevra, in questo caso più che altrove, di violenza. E’ infatti molto tardi, e sintomo per il filosofo tedesco di decadenza, che la violenza giuridica è penetrata anche in questa sfera, dichiarando punibile l’inganno. Mentre, infatti, l’ordinamento giuridico alle sue origini, fidando nella sua potenza vittoriosa, si limitava e respingere la violenza illegale dove e quando si mostrava, e l’inganno non avendo in sé niente di violento, era considerato impunibile (nel diritto romano e antico germanico), il diritto di una età successiva, meno fiducioso della propria forza, non si sentì più in grado di fronteggiare ogni violenza estranea. Il timore di quest’ultima e la sfiducia in sé stesso segnano la sua crisi. Vietando l’inganno il diritto limita di fatto l’uso dei mezzi interamente non violenti, perché essi, per reazione, potrebbero ingenerare violenza. Anche il diritto di sciopero è ammesso, su questa linea, per evitare o allontanare azioni violente. Si adombra qui un’analogia, nel mezzo puro, tra contese tra singoli e contese tra Stati o classi, o tra classi e Stati. Ora il proletariato dichiara di voler sopprimere lo Stato, come nel caso dello sciopero generale quale mezzo puro, ma senza, in ragione di ciò, i vantaggi materiali tratti dalla eventuale conquista, essendo lo Stato stesso la ragione d’essere dei gruppi dominanti, i quali traggono profitto da tutte le imprese di cui l’insieme della società sopporta gli oneri. Mentre una generica forma di sospensione del lavoro è violenta, determinando solo una modificazione estrinseca delle condizioni di lavoro, la seconda, come mezzo puro, è priva di violenza. Essa non verte sulla disposizione a riprendere, dopo concessioni esteriori e qualche modifica delle condizioni di lavoro, il lavoro di prima, ma nella decisione di riprendere solo un lavoro interamente mutato, non imposto dallo Stato. Rovesciamento che questo tipo di sciopero realizza in modo diretto. Se la prima di queste forme impone un diritto, la seconda è anarchica. Dal punto di vista delle conseguenze, questa soluzione, però, rimane inservibile, e eminentemente nell’ambito di ciò che è applicabile dai parlamenti. E “in tutto l’ambito dei poteri previsti dal diritto naturale come da quello positivo (uno regola la giustezza dei fini, l’altro dei mezzi), non ce n’è uno che sia libero da questa grave problematicità di ogni potere giuridico. Ma se il riscatto dalla schiavitù come una soluzione di compiti umani, escludendo la violenza in linea di principio, non risulta realizzabile, si pone la questione di rintracciare e analizzare forme di violenza estranee a quella giuridica. Ora, afferma Benjamin che “della legittimità dei mezzi e della giustizia dei fini non decide mai la ragione, ma violenza destinata dell’una, e dell’altra Dio. Appare ora chiaro che una funzione non mediata della violenza è per esempio la collera, che non si stabilisce come mezzo a uno scopo definito. E per tornare a quanto premesso, l’analisi del mito è analoga a quella della collera: la violenza mitica nella sua forma esemplare è manifestazione degli dèi: non mezzo ai loro scopi, ma, in quanto loro volontà, palesarsi del loro stesso essere... Nel mito non si punisce l’infrazione di un diritto esistente. Si palesa, l’azione di chi è punito, come sfida destinale e non un inficiare un diritto esistente. Questa violenza divina non era ancora quella della pena, come nel diritto. L’analogia testimonia di quanto anticipato in precedenza, ovvero che: “la funzione della violenza nella creazione giuridica è… duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto – nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa”.
In questo quadro la giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio di ogni diritto mitico. L’archetipo di ogni violenza creatrice di diritto è la fissazione di confini. In essa, infatti, appare in maniera palese che è il potere (ancor più del guadagno ingente di possesso) che deve essere garantito dalla violenza creatrice di diritto. Il confine detta una linea da rispettarsi con pari diritti, ma con una difformità di grado di possesso: il che è demonicamente ambiguo. Per uscire dalla violenza creatrice di diritto e dalla conservazione violenta di esso che ha il diritto stesso come fine, Benjamin ricorre al divino e al sacro. E torna il comandamento nodale: “Non uccidere”, da esso non segue nessun giudizio su una azione che gli contravvenga. Esso non è un criterio del giudizio, ma una norma dell’azione per la persona o la comunità che agisce, che devono fare i conti con esso in solitudine, e far rientrare in casi straordinari la responsabilità (di cui parlavamo) di prescindere da esso.
Insomma, “la critica della violenza è la filosofia della sua storia. La filosofia di questa storia, in quanto solo l’idea del suo esito apre una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Uno sguardo rivolto solo al più vicino può permettere tutt’al più un’altalena dialettica tra le forme di violenza che pone e che conserva il diritto. Tali oscillazioni hanno ragione nel principio espresso in prima battuta per cui “ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa. E il discorso sui parlamenti costituisce in Benjamin qualcosa che ha a che vedere con questo principio e rischia di essere pericolosamente incendiario e oppositivo a quello che oggi definiremmo riformismo.
Resta ancora un interrogativo: se il sacro si manifesta nell’istante perfettamente tempestivo e messianico dell’avvenire fuori dal fondale indistinto del fattuale, e precisamente nella significanza profonda che esso reca, può la Storia sopportare il peso e la responsabilità di una violenza pura intesa come estranea a quella del diritto? E come può essa essere simile alla voce di una divinità compassionevole e non vendicativa?
In ogni caso pare che per uscire dalla serialità della storia come prodotto di coloro che hanno vinto, l’angelo della storia abbia segreta nostalgia dei cubiti sacrificali che essa ha significato, e seppure sospinto in avanti dalla fenditura futuribile del presente, voglia cogliere nel presente il senso di una memoria diversa e uguale a quella che Nietzsche vedeva impressa nel sigillo del sangue versato per affermare diritto e morale. Se la morale, mai o quasi mai nominata nel saggio di Benjamin, è il prodotto di repressione e forza coercitiva (una forma di imprinting violento), i disastri della storia sono le impronte digitali che incriminano le potenze e le istituzioni che in essa hanno il predominio; ma la storia è fatta dai vinti come da i vincitori, e il sangue dei vinti può essere redento o riscattato se la memoria non è un fatto meramente evenemenziale ma il sostrato su cui si fonda un presente che si apre a un discorso di avvento della verità e del senso.
Resta da vedere se la verità del presente non sia che l’altra faccia della medaglia del passato, ovvero la voce spesso inascoltata di chi soccombe e soffre in una dimensione personale ancor prima che storica e collettiva. La storia non sarebbe una retta direzionata e dotata di senso, come nella visione agostiniana, il suo non è il tempo omogeneo e finalistico dei positivisti, in essa si alternano la dimenticanza e la memoria, una forma e l’altra di violenza, potenze che si contendono la scena della storia, e la memoria sola testimonia del senso del presente: un presente destinato a trovare sua traccia in una prospettiva futura di salvazione kairologica che elude la colpa e fonda il vivibile in seno a ciò che dichiara non solo la “nuda vita” ma l’anima dell’essente e la sacralità della vita stessa.
Un discorso che non può compiersi in modo organico ma solo nel frammento e nella presa di posizione per una marginalità che sembrerebbe esclusa dalla storia dei vincenti, ma è storia essa stessa e nel senso più alto del termine: voce incostante e spesso agonica di un’umanità che esce dal mito per ritrovarsi in seno all’istante e al suo potere rivelativo, tale da aprire possibilità che non sono elencabili nel novero di ciò che è accaduto, ma entrano a buon diritto nell’auspicabile come via terza tra il fatto e il suo mero opposto. La storia quindi è un’allegoria dell’esistente? Certamente non è un processo progressivo e meccanicistico, a oggi, ma il teatro di un tempo non rituale, volto al gioco e all’immediato (come nelle cosiddette “società calde” di Strauss), e che scardina il tempo mitico e il ripetersi dell’uguale nel culto e nella devozione teologica per il potere. Le potenzialità inespresse dell’accaduto divengono voce di un‘uscita dall’uguale e di una irruzione nell’identico, i mutamenti maggiori sono connessi all’eredità del passato, essa è spesso voce inascoltata di possibilità inesplorate che il presente narra come storia e la storia slancia verso il futuro.
Di Massimo Triolo