"Pictor in fabula". Finalmente ritorna nei grandi musei la pittura d'anima nella migliore tradizione figurativa italiana ed europea
La nuova mostra di Pietro Geranzani a Palazzo Citterio di Milano, a cura del Direttore della Pinacoteca di Brera Angelo Crespi
Fino al 31 agosto a Palazzo Citterio (Milano, Via Brera 12-14) espone l’artista Pietro Geranzani con un suo grande trittico dedicato al tema della guerra in un evento chiamato: “Anteguerra. Avant-guerre. Pre-war. Vorkriegszeit” a cura del Direttore di Brera Angelo Crespi (da giovedì a domenica, h 14-19). Pietro Geranzani è un artista completo: pittore, compositore musicale, videoartista. Non solo: è un artista di formazione europea; nato a Londra, cresciuto tra Genova, la Germania e la Svizzera, e attivo oggi a Milano; ha esposto in contesti internazionali tra cui la Biennale di Venezia, il MART di Rovereto, la Saatchi Gallery di Londra e numerosi spazi in Europa, Stati Uniti e Asia. Questo evento braidense e milanese inaugura nella nuova sede della Pinacoteca di Brera una prima iniziativa dedicata alla pittura figurativa italiana contemporanea ed è arricchita dall'esposizione dei disegni preparatori dell'artista e di estratti della magnifica traduzione del Qoelet del poeta Davide Brullo (De Piante editore). L’arte di Pietro esprime una grande ricchezza sia espressiva che culturale e si rivela quindi ispirante approfondimenti e stimolante una conversazione culturale specifica.
Ognuno vede quel che ama. Amando i simboli ho notato una sottile ma diffusa segnaletica nel tuo trittico sulla guerra in mostra a Palazzo Citterio: una baionetta-picca e una baionetta-falcetto, il segno dell'ombrello che risuona con gli elmi tondeggianti: la tua pittura si può apprezzare anche quale riformulazione e ritessitura di linguaggi simbolici?
I linguaggi della pittura, quella che racconta delle storie, offre piani di lettura vari, a volte complessi, a volte solo apparentemente complessi. Ci sono elementi in questo trittico che hanno richiamato la curiosità di molti. Mi è stato chiesto conto degli elementi più incongrui e disordinati. Quando ho iniziato a dipingere la guerra, i riferimenti si sono accumulati, primo fra tutti al grande trittico della guerra di Otto Dix, conservato a Dresda, ma come è successo a lui, anch’io mi sono rivolto a Grünewald, e poi anche a Goya, quello dei sabba e dei fogli dei disastri della guerra, ai fratelli Chapman e alla loro monumentale installazione Fucking Hell e via ancora, esplorando e cercando una lingua comune. La mia preoccupazione è stata primariamente di dipingere qualcosa che non ho conosciuto direttamente. Ho visto la guerra nella sua finzione, nel cinema e alla televisione. La mia generazione non ha sentito il fischio delle bombe e non ha sentito l’odore acre della battaglia. Io sostanzialmente ho raccontato la mia paura della guerra, non ho riportato, per mia fortuna posso dire, come ha fatto Dix per esempio, fatti che ho vissuto. Chi guarda un quadro, un’opera d’arte in generale, tende a immedesimarsi, ho pensato, e affiorano così le preoccupazioni, i timori reali dell’osservatore. Da Goya ho tratto il senso grottesco, comico, in qualche modo dissacratorio delle azioni umane, il Goya della modernissima e aspra critica della crudeltà, della guerra come orrendo gioco di sopraffazione, della superstizione, il Goya che ridicolizza gli aspetti eroici e romantici dei conflitti. La mia pittura è espressionista e romantica, mi si dice, e come tale esprime il mio mondo interiore. La rappresentazione attraverso la deformazione porta a riclassificare le nostre debolezze, l’espressionismo a enfatizzarle. Le armi che ho dipinto sono finte, sono inutili. Le lance sembrano più arpioni da pesca al tonno che armi d’offesa, gli elmi e le divise non hanno riferimenti storici precisi, i soldati nel primo quadro del trittico non fanno niente, in un turbinio di gesti disarticolati si muovono tutti, senza apparente logica, intorno al cadavere sanguinante in primo piano. L’azione non ha un centro, l’occhio di chi guarda si può muovere liberamente negli anfratti del quadro alla ricerca di dettagli. È tutto ridicolo. Come ridicoli sono gli ombrelli. L'ombrello serve a proteggerci. Qui abbiamo molti soldati con degli ombrelli che si avvicinano ad un corpo martoriato. La scena è potente ma sembra non succedere nulla.
Ami le polarità stridenti, le tensioni tra fattori opposti (protezione e massacro)?
L’ombrello serve a proteggerci. Da cosa? Semplicemente dalla pioggia. Nel primo quadro del trittico c’è violenza, sangue, frattaglie, un vero carnaio convulso, fango e pioggia. Ecco, chi guarda il quadro e non ha conosciuto la guerra e come dicevo si immedesima, coglie come preoccupazione l’elemento che gli è famigliare. In due parole, se io conosco solo la pioggia, nel quadro riconosco la pioggia. Il resto è finto, è rappresentato in una farsa finta che mi allontana ancor più dal vero senso della guerra e mi dispone inerme al dipinto, spiazzato forse. La guerra c’è. È rappresentata, in un modo grottesco e ridicolo forse, ma c’è, e io pittore te l’ho data così. Finta come le guerre finte che vediamo nel cinema, che vediamo oggi anche nei reportage giornalistici, sempre meno censurati, o meglio sapientemente incensurati. Vediamo missili traccianti, corpi abbrustoliti, città sbriciolate e civili in lacrime. Sentiamo dire di profughi e di eccidi, contiamo i morti. Ma poi cambiamo canale. Fuori piove. Prendiamo l’ombrello. Ecco. Tutto qui. La nostra esperienza riguarda la pioggia. Il resto è solo per sentito dire. È una critica al nostro modo di fare esperienza delle cose del mondo. Al fatto che anteponiamo comunque a tutto i nostri crucci personali.
Il Direttore Generale di Brera, Angelo Crespi, nel suo intenso testo introduttivo alla tua mostra ha avvicinato la tua opera a molti riferimenti culturali: Otto Dix, Mario Mafai, Kaspar Friedrich e Thomas Cole tra gli altri. La tua pittura è una pittura colta? Aveva ragione Platone a ritenere la pittura il coronamento delle arti, il telos dell'esprimibile nella sua demiurgicità?
La pittura è colta. Non è la mia a esserlo. La pittura ha una storia lunga quanto quella dell’uomo. È il modo più diretto e semplice che abbiamo inventato per raccontare qualcosa a tutti, anche a coloro che non sono istruiti, o che non parlano la nostra lingua. La pittura si esprime senza le parole, come la musica del resto. Non ha bisogno di traduttori e nemmeno di intermediari. La pittura esiste in quanto tale. E in quanto tale ha sviluppato un linguaggio sempre più raffinato e complesso. È colta nella misura in cui per leggerla ci dobbiamo affidare alla nostra genetica culturale. Ed è più semplice di quel che sembra. Abbiamo secoli di pale d’altare e ritratti e paesaggi e pittura che si rinnova e si contesta da sé. Pittura che glorifica e critica, pittura che irride la società e anche sé stessa. I nomi che hai menzionato fanno parte di una lunghissima catena, che costituisce la nostra storia. Tutti siamo un anello di questa infinita catena. Alcuni sono anelli più grandi, ai quali magari si sono uniti tanti anelli più piccoli, e hanno segnato uno scarto nel pensiero fino a quel momento condiviso, penso ai grandi della storia, da Michelangelo a Shakespeare, da Leonardo ad Einstein, da Goethe a Goya a Galileo, per capirci. Ma anche loro sono attaccati a un qualche anello, è inevitabile. Io sono attaccato ad anelli, tu sei attaccato ad anelli. Dix, Mafai, Friedrich, Cole. Tutto giusto. Mi sono stati d’aiuto per dipingere questi quadri. Direi che per farli ci siamo messi lì e ne abbiamo parlato tutti insieme.
Ci spieghi l'allestimento a trittico con un dipinto centrale posto in fondo e ci illustri il titolo della mostra?
È nato da un’esigenza. Lo spazio, per quanto grande e sontuoso, non aveva la larghezza necessaria. Allora Angelo Crespi ha avuto un’idea brillante. Ha immaginato i quadri allestiti su due piani diversi. I due laterali avanzati rispetto al quadro centrale, che è anche il più grande. Si è creato così uno spazio teatrale, un vero e proprio spazio fisico per il trittico. Ci si può praticamente entrare. E avanzando ci lasciamo dietro i due quadri laterali e ci immergiamo in quello con il grande cratere, come se ci risucchiasse. Il titolo della mostra è “Anteguerra”. Per aiutarmi cito un paio di passaggi del testo che Angelo Crespi ha scritto in accompagnamento: “[...] se ci pensiamo bene, la storia dell’Occidente è una storia di guerra, brevi periodi di transizione tra una guerra e l’altra. Ed anche le innumerevoli paci firmate nel corso dei secoli, a dichiarare la fine di una ennesima guerra, in realtà retrospettivamente sembrano solo declaratorie di facciata che preconizzano un’ulteriore successiva guerra [...] e ancora: [...] L’interpretazione emotiva precede quella cognitiva-razionale: quando siamo di fronte a una minaccia, il primo ad avere paura è sempre il corpo, non la mente. Ecco siamo allertati, solo che non c’è paura nel senso stretto, semmai l’eccitazione che qualcosa accada, oppure l’orrore che dietro la tenda ci attenda definitiva la fredda lama del coltello. [...] La visione dell’anteguerra di Geranzani ci riporta ad archetipi sedimentati nel nostro profondo, i corpi frantumati, il sangue, gli scheletri, e al centro quel vuoto assoluto, la terra che si fa concava e tremenda, e basso il sole all’orizzonte, un paesaggio che ricorda Kaspar Friedrich, e i cieli infuocati alla Thomas Cole, e non si può dire se sia la fine o sarà un nuovo inizio.”
Il dipinto di sinistra mi turba, quello sul fondo (il cratere e il sole) mi rasserena e quello di destra mi sorprende: gli scheletri non sono macabri ma eterei e sembrano quasi trasfigurarsi in una anomala grazia mentre gli ombrelli diventano diafani, luminescenti e levitano. Un omaggio al surrealismo oppure una fase processuale di una tua alchimia espressiva articolata in questo trittico scomposto?
Questa è una domanda cui non so dare una risposta precisa. Prima di tutto grazie per aver provato una molteplicità di sentimenti. In fondo è questo che m’importa davvero. Non c’è una chiave di lettura emotiva unica. Tu per esempio trovi rassicurante il quadro con il cratere. Per me quello è il quadro nodale del racconto. All’inizio il titolo del trittico era, in tedesco, per un omaggio a Caspar David Friedrich, wo alles zu Ende ist cioè dove tutto è finito. Il cratere rappresenta il passaggio dal massacro della guerra agli inferi. Ho voluto rappresentare una grande distesa calma, come quella del teatro della battaglia della Somme, che ha causato più di un milione di morti in pochi giorni, che oggi è un enorme prato placido, con dei solchi ormai coperti dall’azione della natura, dove si intravedono appena le trincee. C’è un memoriale e poi null’altro. Calma, memoria, la nostra storia. Lì al centro ho messo un grande cratere, come quello di una bomba. Nel tempo ho scoperto che un cratere lì c’è davvero, il cratere di Lochnagar, grande e profondo, quello di una carica sotterranea di ventisettemila kg di esplosivo piazzata dagli inglesi sotto la fortificazione tedesca. Oggi è ancora lì, a memoria di quella carneficina. Quando ho iniziato il quadro non lo sapevo, forse la realtà ha superato di nuovo la fantasia. Fatto sta che il mio cratere ha la stessa funzione di monumento, ma ha un buco nero ancora più profondo che si estende come una voragine nera verso il buio, evocativo degli inferi. Non mi rasserena, anzi, trovo quell’immagine la più inquietante del trittico. Basso nel cielo c’è il sole, ma chi può dire se sta sorgendo o tramontando? Il quadro a destra è stato il più difficile da concepire. È una specie di fossa comune, piena di anime dannate. Le ho rappresentate come corpi in disfacimento, accatastati, deformi e aggrovigliati, e dietro una fiumana di altri che aspettano il loro turno. Per dipingerli ho faticato, perché non volevo degli scheletri, mi fanno ridere gli scheletri, con il loro crepitio di ossa, clac clac, con quella risata sardonica stampata su quel che resta della faccia, ma non volevo nemmeno degli zombie. Poi ho ricordato la mia visita alle catacombe dei Cappuccini a Palermo. Un gigantesco claustrofobico labirinto di mummie, una sull’altra, migliaia, in stato pessimo di conservazione. Ecco la consunzione che cercavo. Ho dipinto quelle. La pittura carnosa come la mia ha fatto il resto, la carne della pittura, la pittura che si fa carne, in quel gioco di convenzioni per il quale nell’arte noi crediamo a quel che vediamo, pure consapevoli che è pigmento un pezzo di lenzuolo. Ah, come sono affascinato da questo gioco! Gli ombrelli, ah già, gli ombrelli. Sono ancora lì, trascinati insieme ai corpi negli inferi. Ma non servono più, svolazzano senza direzione nello spazio della scena.
I tre dipinti possono leggersi anche in senso reversibile? L'idea mi viene dal fatto che il dipinto con il paesaggio con al centro il grande cratere e appena sopra il sole all'orizzonte (non si capisce se all'alba o al tramonto) mi ricorda i miti orfici e iperborei con il loro tema ancestrale del centro nordico del mondo dove cielo e terra si sfiorano ma pure è presente un varco catabatico e non solo iperuranico.
Potrei azzardare un’iperborea come quella immaginata da Bailly, una sorta di Atlantide nordica da cui tutta la civiltà ha avuto inizio, quel lembo di terra dove i mondi, celeste e terrigno si incontrano. Se questo grande buco fosse davvero quel passaggio mitico non so, ma se lo immaginiamo come il varco catabatico, dove le correnti si scontrano, e la direzione è, per fisica, verso il basso, allora sì, il trittico racconta un’inesorabile discesa verso il basso.
Dietro i veli del surrealismo la tua pittura veicola una narratività allusiva, un’etica intellettuale?
Sì, credo di sì...Ogni opera è cifra e risonanza.
La tua cifra sto iniziando a provare a capirla. Le risonanze mi rimandano, nel tempo recente, alla figurazione in dinamica di Francis Bacon e al colore pastoso, caldo e animico di Lucian Freud. Sono pittori che ami?
Amo Bacon e a tratti pure Freud. Ma così non mi basta. Amo continuamente pittori, e se della scuola di Londra dobbiamo parlare allora per favore, menzioniamo Frank Auerbach e Leon Kossoff, che sento più vicini di Lucian Freud. Una volta, in un’intervista, un altro grande pittore britannico, Graham Sutherland, alla domanda su quali fossero i pittori contemporanei cui lui si riferiva, e da quali traesse ispirazione e insegnamento, rispose, dopo aver esitato un attimo, Tiziano, Rembrandt, Veronese, Tintoretto... ma no, disse l’intervistatore, contemporanei! Appunto, rispose Sutherland, contemporanei.